Francesco ci descrive la ricerca che li ha portati, con Bruno, Christian e Carlo, a dare inizio ad una fraternità rurale a Brossasco, nel Saluzzese a sud di Torino. Una fraternità si costruisce a partire da un desiderio e da un progetto comune dei fratelli che la compongono e anche tenendo conto di ciò che ciascuno è. Quando la scelta di un determinato posto è fatta, bisogna aprir bene gli occhi per comprendere l’ambiente e per lasciarsi accogliere dalla gente. Questo è un modesto bilancio dopo quattro anni di presenza a Brossasco.
Carissimi fratelli,
non ricordo più a quando risale l’ultimo mio diario per cui, dopo aver “vissuto” un tempo relativamente sufficiente a Brossasco, ho deciso di “raccontarvi” ciò che viviamo in questo piccolo paese di montagna.
Questa fraternità di Brossasco si trova a circa 80 Km a sud-ovest di Torino, all’imbocco della Valle Varaita, a 610 mt di altitudine. Siamo molto vicini alla Francia: a 50 km da qui infatti
c’è il Colle dell’Agnello (2745 mt) che segna la frontiera tra noi e i nostri cugini francesi. Tutta la valle si estende per 50 km. con una popolazione di circa cinquemila abitanti. Brossasco, con il nostro arrivo, conta 1.065 unità, dunque si tratta di un vero piccolo paese.
Ci siamo stabiliti qui esattamente il 16 giugno 2013. Io ero ancora impegnato nel servizio alla Fraternità Generale, ma, visto il mio “glorioso passato”, avevo chiesto di poter risiedere qui durante l’ultimo anno di servizio e di non impegnarmi più in grandi viaggi…
Siamo arrivati qui dopo un lungo cammino di discernimento fraterno, facendoci aiutare da una nostra amica psicologa, e mi sembra che quel tempo di preparazione porti oggi i suoi frutti. La fraternità è composta da Bruno – il nostro fratello maggiore – da Christian e da Carlo – che al momento fa la spola tra Lilla (Francia) per i suoi studi di teologia e Brossasco per il lavoro durante le sue vacanze estive – e dal sottoscritto.
Vivere in una fraternità a quattro, per me, è l’ideale; vi devo confessare che oggi farei fatica a ritrovarmi sempre e soltanto di fronte ad uno stesso fratello. Naturalmente, vivere a quattro vuol anche dire prendere delle precauzioni affinché ciascuno abbia il proprio spazio (fisico e psicologico). La casa che abbiamo scelto è abbastanza spaziosa perché giustamente ciascuno abbia questi spazi e perché si possa anche accogliere qualcuno con comodità.
Se siamo arrivati in questa vallata è perché, già prima che io partissi per il servizio alla Fraternità Generale, avevo vissuto con Christian ad Alfonsine in una fraternità rurale. La mia partenza ebbe, come conseguenza, la chiusura della nostra fraternità e Christian andò a Torino per vivere con Bruno e Franco. Nella prospettiva del mio rientro in Regione, abbiamo cominciato a riflettere insieme su come organizzare il nostro futuro. Restare a Torino? O cogliere questa opportunità per immaginare qualcosa di nuovo? Ci siamo ritrovati tutti d’accordo per rifondare una fraternità in ambiente rurale. Ma, vista la nostra età, dove e come realizzare questo sogno?
Il fatto di aver scelto di farci aiutare da questa amica psicologa ci ha portato a fare un serio “tempo di discernimento” sia personale che comunitario. Ciascuno ha avuto l’opportunità di esprimere liberamente i propri desideri e le proprie paure, per poter dar vita insieme ad un progetto di fraternità che rispettasse le differenze di ciascuno. Per me, e posso immaginare anche per i miei fratelli, si è trattato di un momento molto importante e bello anche per conoscerci reciprocamente meglio; un tempo nel quale ciascuno si è dato agli altri. Oso dire che si è trattato di un tempo di grazia!
Beh, a questo punto forse vi chiederete come siamo arrivati in questo “luogo sconosciuto”!…
Prima di tutto, già durante il periodo di discernimento, avevamo deciso di non allontanarci troppo dalla fraternità di Torino. Ci sembrava importante infatti che una giusta vicinanza sarebbe stato un “di più” per tutti. Inoltre, da sei anni, il vescovo di Saluzzo (la nostra attuale diocesi), ci aveva concesso in comodato gratuito un presbiterio di montagna abbandonato, per utilizzarlo come eremo. Tale eremo si trova a 4 km. da dove abitiamo adesso; questo ci ha anche motivato per venire in questa vallata.
Come accade spesso, gli inizi non sono semplici per nessuno. Si trattava di una nuova tappa per noi tutti nella quale bisognava costruire, giorno dopo giorno, la “fraternità” tra di noi e con la gente del paese. Si trattava in breve di una nuova avventura, tutta da vivere!
Ci ponevamo tanti interrogativi e la sola risposta che avevamo in quel momento era quella di “vivere”, giorno dopo giorno, nella fiducia, tutto quello che la vita ci proponeva !
Ovviamente uno dei problemi da affrontare era quello del lavoro. Lavoro per vivere ma anche per entrare in questo nuovo tessuto umano con il passo e l’immagine giusta.
Christian ha trovato subito lavoro in una cooperativa sociale/agricola, dove adesso lavoro anch’io. Si tratta di una cooperativa nata 35 anni fa, fondata da un gruppo di giovani che, spinti dalla loro fede, avevano scelto di mettere in comune i loro terreni agricoli e le loro capacità per creare uno spazio dove potessero inserirsi anche delle persone con dei problemi e così, tramite il lavoro, ritrovare la loro dignità. Tale cooperativa si compone oggi di cinque settori: la stalla con 200 mucche che oggi producono latte bio, il settore agricolo con i frutteti, il caseificio, la manutenzione del verde con la cura di parchi e aiuole e il negozio di alimentari dove lavoro io.
Christian all’inizio ha lavorato nei frutteti e in seguito, data la sua esperienza del passato, gli è stato chiesto di creare una squadra per la manutenzione dei cimiteri. Da qualche mese, per problemi di salute, ha lasciato l’ambiente lavoro, ma vi ritorna di tanto in tanto come volontario. Non c’è però da preoccuparsi per lui, di sicuro non si annoia! E’ abbastanza preso dai suoi due campi comunitari, uno a quaranta km. da Brossasco che è soprattutto un frutteto con parecchie file di piccoli frutti, l’altro ad una decina di km. da noi che è esclusivamente un orto comunitario con vari generi di legumi. Inoltre cura anche i suoi alveari situati nell’eremo di Masueria che producono un miele di montagna molto apprezzato.
Carlo, quando siamo arrivati qui, aveva appena finito il noviziato e fu assunto da una azienda che produce tisane bio. Il suo lavoro consisteva principalmente nel diserbare le piante officinali con la zappa, lavorando in squadra. Partito a Lilla per gli studi, ha la fortuna ogni estate, di ritrovare il suo posto di lavoro e i suoi compagni lavorando nella stessa azienda. E’ un lavoro assai pesante ma lui ne è felice, soprattutto perché condivide il suo lavoro con dei colleghi romeni, marocchini o africani, e naturalmente anche con qualche…italiano! Sta terminando i suoi studi a Lilla e poi Brossasco sarà la sua fraternità.
Bruno, con i suoi 79 anni portati bene, assicura la permanenza in fraternità. Soprattutto si occupa del pranzo a mezzogiorno e assicura l’accoglienza ai pochi o molti che bussano alla porta. E’ anche il referente per i due eremi che cerca di tenere in ordine e si occupa di tante altre piccole cose.
Una volta finito il mio servizio alla Fraternità generale, anch’io mi son posto la domanda sul lavoro. Che posso fare a 54 anni? A che porta bussare? A chi rivolgermi? Non è certo così evidente trovare un lavoro alla mia età, soprattutto sapendo di non poter fare qualsiasi cosa!
Ho preso la decisione, sostenuto anche dai fratelli, di iscrivermi ad un corso di formazione come “casaro” (settore lattiero-caseario) in un centro professionale non troppo distante da Brossasco; non ho mai avuto risposta! Forse perché troppo vecchio? Per finire sono andato a bussare alla porta della cooperativa dove lavorava Christian. Avrei voluto lavorare nel loro caseificio, ma il responsabile mi ha subito detto che non aveva bisogno di personale in quel settore e che invece c’era urgente bisogno di qualcuno per il negozio. Ne ho parlato con i fratelli e per farla breve mi son buttato! C’è voluto del tempo per imparare i segreti del mestiere, ma ora mi trovo molto bene e a mio agio. Si tratta di un lavoro che mi mette in relazione con molta gente e, col tempo, ricevo parecchie confidenze da parte dei clienti.
Il mio è un contratto part-time di 20 ore alla settimana, di fatto però ne faccio molte di più perché c’è sempre qualcosa da sistemare nel negozio. E’ un lavoro che mi piace e mi piace anche l’ambiente della cooperativa. Si tratta di una cooperativa “povera” con tanti limiti sul piano organizzativo e sul piano finanziario. All’inizio facevo veramente fatica a capire come potesse andare avanti una realtà così disorganizzata; ho tentato di contribuire con la mia esperienza, ma ben presto mi sono reso conto che chiedevo troppo e che il modo migliore per apportare un certo rinnovo era quello di dare il meglio di me stesso nel lavoro e basta. Oggi, posso dire che ho veramente una grande fortuna, quella di potere, alla mia età, svolgere un’attività che mi permette di entrare nel tessuto sociale di questa vallata alpina.
La vita in montagna non è sempre facile. La gente di montagna è piuttosto riservata e, per principio, non ama disturbare. Da tutti siamo conosciuti come dei religiosi. All’inizio quando siamo arrivati, la parrocchia ci ha chiesto di presentarci alla comunità parrocchiale e credo che questo abbia aiutato a “situarci” un poco, altrimenti l’immaginazione avrebbe galoppato ad una velocità vertiginosa! Credo che adesso non siamo più una curiosità nel paese ma siamo di casa. La gente della valle dunque ci conosce molto di più di quello che noi immaginiamo.
A livello ecclesiale, ho l’impressione che i sacerdoti sono molto rispettosi del nostro carisma. Non ci hanno mai richiesto niente. Una volta al mese siamo anche noi invitati – ed è soprattutto Bruno che vi partecipa – all’incontro zonale dei preti della vallata, che puntualmente termina con un buon pranzo. Abbiamo inoltre una bella amicizia con Claudio, Luca e Carlo, i tre preti dell’alta valle. Una volta al mese ci incontriamo per pregare e passare la serata insieme. E’ un’amicizia che ci fa del bene reciprocamente.
Tutti questi legami che cominciamo ad intrecciare in questa vallata sono come dei piccoli regali del Signore che ci aiutano a costruire la “fraternità” e ci permettono di crescere in “umanità”.
Grazie, fratelli, per aver avuto il coraggio e la forza di leggermi fino alla fine.
Con tutta la mia amicizia.
Francesco
Marcelo, in visita ai fratelli di Holguin (nella parte orientale di Cuba) ci parla di Enrico e di Humberto, sostenuti ed incoraggiati dalla grande prossimità dei loro vicini e vicine. Ci parla poi della vita ad Hindaya, il quartiere illegale di L’Avana dove la fraternità c’è da 25 anni: ora i fratelli ed i vicini sono gradualmente trasferiti dall’autorità municipale in un altro quartiere ancora in costruzione. E’ come una pagina di Vangelo vissuto…
di Marcelo
Mi trovo ad Holguin per un a quindicina di giorni per mantenere i legami tra le nostre due fraternità e anche per accompagnare, per qualche giorno, i nostri due fratelli più anziani, Enrico ed Humberto. Ne approfitto per darvi qualche notizia. Malgrado l’età, la loro presenza nel quartiere è molto apprezzata e assai vivace, le visite dei vicini non mancano mai. I fratelli hanno spesso aiutato parecchi vicini a sopravvivere in situazioni difficili. La loro amicizia con il vescovo e con tanti cristiani della città, ma anche con la piccola comunità che si riunisce nel quartiere vicino alla fraternità danno un rilievo particolare alla loro partecipazione alla vita della Chiesa locale.
Enrico non esce molto da casa, ma l’ho trovato in gran forma. Humberto continua con le sue scorribande nel quartiere anche se la sua salute non è proprio brillante! Vale la pena di accompagnarlo, senza aver fretta, per conoscere tutta quella gente.
Il quartiere si è sviluppato gradualmente: l’elettricità, l’acqua, gli ambulatori medici ecc. Ma la vita quotidiana resta difficile per la maggior parte della gente, e tutte le viuzze che serpeggiano per il quartiere sono veramente in uno stato pietoso. Nel corso degli anni si è sviluppata tutta una rete di relazioni e di amicizie, di condivisione e di mutuo sostegno. Per una trentina d’anni i fratelli hanno aiutato, accompagnato e condiviso; oggi sono i vicini e le vicine che sovente devono dare loro una mano, accompagnandoli, dando loro il coraggio e il gusto di vivere. Non è infatti sempre facile accogliere e accettare certe povertà, debolezze e malattie che ci cascano addosso con l’avanzare degli anni! Eppure, nessuno può sfuggire a questa situazione!
Ciò che mi sembra molto bello è che, grazie ai vicini e alle vicine, grazie a tanti amici , i nostri due fratelli, per il momento, possono vivere questa tappa dell’ “invecchiamento” nel loro quartiere. Sono veramente fortunati! Sì davvero, anche se qualche volta le difficoltà, i problemi ed i rancori si danno l’appuntamento, come in ogni vita ed in ogni quartiere di questo mondo!
Rientro a L’ Avana da Holguin: 770 km in 12 ore di autobus; il trasporto è buono ma a volte è difficile trovare il posto.
Qualche mese fa abbiamo traslocato in un nuovo appartamento con tre camere, assegnatoci dal comune di Marianao. Il nuovo quartiere, che è confinante, si costruisce lentamente per dare un nuovo alloggio a tutti gli abitanti di Indaya. Ci ritroviamo quindi con gli stessi vicini. Metà del quartiere ha già traslocato: ma i lavori vanno avanti molto a rilento!
E’ un “avvenimento” per tutti. Molti riescono ad acquistare dei mobili, delle tende per le finestre. Tutti si scambiano gli “auguri” per la nuova vita. Impossibile non partecipare alla gioia di tutti, dopo tanti anni di lotte e di vita in cattive condizioni.
Per noi si tratta di un cambiamento enorme. Abbiamo lasciato la casetta al bordo del rio così capriccioso! Sovente la casetta veniva inondata dal basso e dall’alto, ma essa aveva il suo fascino, il suo piccolo orto e tutta una rete di relazioni umane tipiche del quartiere, illegale certo, ma assai vivo, anche se tutto era illegale e precario: la casa, l’acqua, la luce, la strada dove piccoli e grandi giocavano, i lavori saltuari, le piccole “attività” di qualsiasi genere, e…la lotta per trovare da vivere! Non possiamo dimenticare questi 25 anni vissuti ad Indaya. Abbiamo ricevuto tantissimo, abbiamo imparato e apprezzato tante cose e ne abbiamo anche sopportate altrettante…
Non dimenticherò mai il giorno in cui ho chiesto ad un gruppo di vicini che conoscevo, se accettavano di accoglierci per vivere con loro. «Si» hanno risposto. Ed io allora: «Perché?» – «Perché la Chiesa è potente e con una Chiesa nel quartiere, non potranno smantellare il quartiere!». Questa fu la risposta: «Venite con noi». Da parte nostra abbiamo cercato di mettere le cose in chiaro: prima di tutto la Chiesa non è così potente a Cuba; ma soprattutto…perché pensare ad una grande chiesa se voi non andate mai in chiesa! Era sufficiente una piccola casa accogliente e aperta a tutti per condividere e vivere il Vangelo, con una piccola cappella dove ciascuno poteva venire a pregare quando voleva. Una cosa era chiara: soltanto insieme, uniti e solidali, noi avremmo potuto sopravvivere in quel quartiere e, forse, un giorno partire insieme per una sistemazione migliore , con delle case migliori. Eravamo tutti illegali, senza indirizzo riconosciuto, immigrati dall’interno dell’isola e c’erano anche dei bambini nati nel quartiere. Abbiamo creato un Comitato in difesa della Rivoluzione (CDR). E, miracolo!, fu ufficialmente riconosciuto! Le donne hanno creato la Federazione delle donne. Queste due organizzazioni sono formidabili, anche se non funzionano granché; e sono sempre state al nostro fianco!
Abbiamo vissuto dei periodi di grande crisi: la caduta del Muro di Berlino e dell’URSS, che per noi hanno dato inizio al così detto “Periodo Speciale”, con penurie terribili di ogni genere.
La popolazione del quartiere era giovane e povera. Mancava quasi tutto, ma essi avevano la loro cultura, la loro fede, la loro religione, i propri codici di onore, il loro amore e rispetto per i bambini. Quante volte abbiamo visto i genitori portare i loro figli in braccio, al mattino perché non camminassero nel fango e arrivassero puliti a scuola! (La gente usciva con i sacchetti di plastica ai piedi per proteggere le scarpe dal fango…).
Mi ricorderò sempre le parole che dicevano coloro avevano la fortuna di trovare un lavoretto in nero o un nuovo “affare”: «Datemi la vita». In pochi giorni tutto il quartiere era al corrente e si aveva la sensazione di vivere tutti un po’ meglio. Tutto questo non è forse più umano dei grandi slogans capitalistici? Mi è anche impossibile dimenticare l’accoglienza e l’aiuto per migliorare e riparare la casa con del materiale di recupero per renderla più accogliente; e quel ragazzino che un giorno arriva e molto seriamente mi dice: «Ehi, signore, voglio essere vostro amico; è possibile?».
Certamente non tutto è stato gradevole e la vita può essere, a volte, dura e crudele. Abbiamo perso qualche attrezzo che avevamo imprestato e che non è mai più tornato indietro; che delusione! Abbiamo perso degli amici carissimi in risse violente e stupide; che impotenza! E che impotenza anche davanti ai giochi d’azzardo dove certuni perdono anche ciò che non hanno, o davanti ai «prestiti “colpo di bastone”» (si tratta di prestiti ad interesse molto alto e a brevissima scadenza!), che moltiplicano la miseria; o davanti all’alcoolismo che distrugge il meglio di una persona e causa tante sofferenze!
Sofferenza e gioia erano sovente intrecciate, ma quando le si vivono da fratelli, sono più facili da portare. Il popolo cubano ha una riserva immensa di tenerezza e di affetto con le quali crea relazioni di amicizia e di fraternità.
In questo piccolo quartiere la speranza ha sempre prosperato. Molte parole di Gesù e del Vangelo sono diventate vita per noi. Abbiamo potuto vedere coi nostri occhi intorno a noi numerose scene evangeliche e a volte noi stessi ne eravamo gli attori.
La presenza di Gesù tra i poveri emarginati ci deve interrogare tutti: si tratta di una presenza reale e può ancora illuminare il mondo. La loro attenzione alla vita, la loro libertà davanti a tutti i potenti, il loro senso della festa, il loro immenso rispetto dei piccoli, è il messaggio comune in un mondo alla ricerca di senso e di fraternità! Ma cosa sono effettivamente per me, per noi?
Per concludere mi vengono in mente due slogan politici. Abitualmente si tratta di slogan orribili ma qualche volta però sono rivelatori: uno, indirizzato ai giovani, diceva: “Prima di tutto ciò che è mio!”… Ne conosciamo il risultato e le conseguenze. L’altro, molto attuale, dice: “Il mio Nord è il Sud”. Certo, noi tutti sappiamo chi e come vive il Nord, e chi e come vive il Sud!
(Dopo la pubblicazione di questo diario, Enrique di Holguin di cui si parla all’inizio, è deceduto. Humberto resta nel quartiere, sempre sostenuto dai suoi vicini!)
La missione nel deserto di oggi
Intervista con il cardinale Walter Kasper sul cristiano che, da solo, nei primi anni del Novecento, costruiva tabernacoli per «trasportare» Gesù nel deserto algerino, di Gianni Valente – http://www.30giorni.it/articoli_id_7367_l1.htm
Nei primi anni del Novecento, a un francese amante della letteratura e della vita avventurosa, rinomato esploratore, capitò di vivere una delle più suggestive avventure cristiane del secolo scorso. Charles de Foucauld, il monaco che da solo costruiva tabernacoli nel deserto algerino per «trasportare» Gesù in mezzo a coloro che non lo conoscevano né lo cercavano, morto ammazzato da quegli stessi tuareg tra i quali aveva scelto di vivere, nel silenzio e nella preghiera, senza aver guadagnato tra loro nessun nuovo cristiano, sarà proclamato beato dalla Chiesa entro quest’anno.
Tra le schiere sempre più folte dei canonizzati, de Foucauld sembrerebbe a prima vista appartenere alla categoria dei santi estremi, quelli che presidiano le terre di confine dell’avventura cristiana nel mondo. Eppure, la sua storia così irripetibile costituisce un dono di respiro e di conforto.
Proprio di questo 30Giorni ha dialogato con il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Che, tra le altre cose, di Charles de Foucauld è un vecchio amico.
Entro quest’anno de Foucauld sarà dichiarato beato. Nel 1905, proprio cento anni fa, giungeva a Tamanrasset, sua meta definitiva, nel deserto algerino. So che la figura di de Foucauld le è cara e occupa un posto speciale nella sua vita di cristiano e di sacerdote. Come lo conobbe?
WALTER KASPER: All’epoca in cui ero professore di Teologia all’Università di Tubinga incontravo spesso un gruppo di sacerdoti membri e amici della comunità “Jesus Caritas”, sacerdoti che seguivano la spiritualità di Charles de Foucauld. Partecipavo di regola alle loro riunioni mensili che comprendevano vari momenti: révision de vie, lettura e meditazione della Sacra Scrittura, celebrazione e adorazione eucaristica e, infine, una cena fraterna. Affascinato dalla figura di Charles de Foucauld, mi sono anche recato in Algeria, sulla montagna dell’Hoggar, dove a suo tempo lui aveva vissuto, e lì, in una semplice capanna nella solitudine della montagna, ho fatto i miei esercizi spirituali. Mi ricordo che ogni sera un topolino con gli occhietti vispi mi faceva visita per avere un po’ del mio pane. Lì a Tamanrasset ma anche altrove, ad esempio a Nazareth o qui a Roma, mi ha sempre colpito la vita delle Piccole sorelle di Charles de Foucauld, la loro vita nella povertà evangelica fra i poveri e la loro vita di adorazione eucaristica. Per capire meglio la spiritualità di Charles de Foucauld mi sono stati di grande aiuto gli scritti di René Voillaume; alcuni aspetti di questa spiritualità sono anche entrati nel mio libro Gesù il Cristo.
In quegli anni, in cui lei partecipava agli incontri dei gruppi “Jesus Caritas”, cosa la colpiva di de Foucauld? Perché trovava interessante e attuale la sua vicenda?
KASPER: Incontravo quel gruppo di sacerdoti in una casa di suore francescane un po’ fuori di Tubinga, in una regione molto bella. Mi ha commosso l’autentica spiritualità evangelica, spiritualità di Nazareth, spiritualità del silenzio, dell’ascolto della Parola di Dio, dell’adorazione eucaristica, della semplicità della vita e dello scambio fraterno. Più tardi ho compreso l’attualità e l’esemplarità della testimonianza di Charles de Foucauld per i cristiani e il cristianesimo nel mondo di oggi. Charles de Foucauld mi sembrava interessante come modello per realizzare la missione del cristiano e della Chiesa non solo nel deserto di Tamanrasset ma anche nel deserto del mondo moderno: la missione tramite la semplice presenza cristiana, nella preghiera con Dio e nell’amicizia con gli uomini.
A giudicarlo dai risultati immediati, de Foucauld sembra un perdente. Durante la sua vita nel deserto non ci furono conversioni al cristianesimo tra i tuareg. Cosa suggerisce la riproposta della sua vicenda adesso?
KASPER: Il filosofo e teologo ebreo Martin Buber ha detto che “successo” non è uno dei nomi di Dio. Anche Gesù Cristo nella sua vita terrena non ha avuto “successo”; alla fine è morto sulla croce e i suoi discepoli, tranne Giovanni e sua madre Maria, si sono allontanati e lo hanno abbandonato.
Umanamente parlando, il Venerdì santo è stato un fallimento. L’esperienza del Venerdì santo fa parte della vita di ogni santo e di ogni cristiano. Questa constatazione può essere un conforto per molti sacerdoti che soffrono per la mancanza di un successo immediato, perché nel nostro mondo occidentale, malgrado tutti gli sforzi pastorali compiuti, le chiese sono sempre più vuote la domenica e la società più scristianizzata. Molti hanno l’impressione di predicare a orecchie sorde. In tale difficile situazione, l’esempio di Charles de Foucauld può essere di grandissimo aiuto a molti sacerdoti.
In che modo si esprime questo aiuto?
KASPER: Possiamo imparare che non si tratta della nostra missione o, per così dire, della nostra impresa missionaria, di un’egemonia culturale o di un allargamento di un impero ecclesiale con strategie sofisticate e perfezionate di pedagogia, psicologia, organizzazione o qualsiasi altro metodo. Certo, noi dobbiamo fare ciò che possiamo e possiamo anche avvalerci di metodi moderni. Ma alla fine si tratta della missione di Dio tramite Gesù Cristo nello Spirito Santo. Noi siamo solo il recipiente e lo strumento tramite il quale Dio vuole essere presente; alla fine è Lui che deve toccare il cuore dell’altro; solo Lui può convertire il cuore e aprire gli occhi e le orecchie. Così, nella presenza, nella preghiera, nella vita semplice, nel servizio e nell’amicizia umana, come quella che ha vissuto Charles de Foucauld con i tuareg, il Signore stesso è presente e operante. Dobbiamo affidarci a Lui e a Lui lasciare la scelta di come, quando e dove vuole convincere gli altri e radunare il suo popolo.
Questo era ciò che de Foucauld aveva visto accadere nella propria vicenda personale.
KASPER: In una meditazione del novembre 1897 scrive: «Tutto ciò era opera tua, Signore, e tua soltanto… Tu, mio Gesù, mio salvatore, tu facevi tutto, nel mio intimo come al di fuori di me. Tu mi hai attirato alla virtù con la bellezza di un’anima nella quale la virtù mi era parsa così bella da rapire irrevocabilmente il mio cuore… Mi hai attirato alla verità con la bellezza di quella stessa anima».
Certamente non possiamo fare di Charles de Foucauld l’unico modello di missione per tutte le situazioni; ci sono anche altri santi esemplari, come ad esempio Francesco Saverio, Daniele Comboni e molti altri, che rappresentano un altro tipo e un altro carisma missionario. Le situazioni missionarie sono svariate e così anche le sfide e le risposte. Nondimeno Charles de Foucauld mi sembra essere un modello per la missione non solo nel deserto fra i musulmani ma anche nel deserto moderno. È emblematico che Teresa di Lisieux sia stata proclamata patrona delle missioni, lei, una giovane suora carmelitana, che non ha mai lasciato il Carmelo e non è mai stata in un Paese di missione; eppure ella ha promesso di lasciare cadere una pioggia di rose dal cielo dopo la sua morte.
I richiami alla missione risuonano tutt’altro che rari. Eppure suonano spesso astratti se non addirittura logoranti.
KASPER: Anche noi cristiani siamo figli del nostro tempo; vogliamo pianificare, fare, organizzare, controllare i risultati… Charles de Foucauld ci suggerisce un approccio diverso: imitare e vivere la vita di Gesù a Nazareth. Ci si potrebbe domandare: Gesù, trent’anni di vita nascosta a Nazareth su trentatré, era forse tempo perduto questo? In realtà, proprio la realtà quotidiana, la realtà ordinaria è il vero spazio pubblico dove si manifesta il dono della vita cristiana. A questo proposito possiamo ricordare un passaggio importante della costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, al paragrafo 31, dove il Concilio parla della missione dei laici e dice che i laici sono fedeli che vivono nel secolo, cioè nelle condizioni ordinarie quali il lavoro e le altre attività giornaliere. «Lì, nelle condizioni ordinarie della loro vita quotidiana, rendono visibile Cristo col fulgore della fede, della speranza e della carità». Talvolta abbiamo l’idea sbagliata che per essere un laico impegnato nella missione si debba essere un impiegato ecclesiastico, che per quanto è possibile partecipa ai compiti del sacerdote, si fa attivamente visibile nella liturgia, eccetera. Ma la cosa più importante è vivere il Vangelo nella vita quotidiana, nella preghiera, nella carità, nella pazienza, nella sofferenza, essere fratello di tutti ed essere convinto – come dice san Paolo – che la stessa Parola di Dio, se accolta e vissuta da noi, corre e convince.
In tanti riconoscono che i cristiani sono diventati minoranza. Ma dicono che proprio per questo occorre darsi da fare, essere creativi, ravvivare la nostra azione. La convince questa impostazione?
KASPER: Mi convince sì e no. Sì, se i cristiani si risvegliano, diventando consapevoli della loro condizione, delle nuove sfide e della loro missione. Non possiamo accontentarci dello status quo e continuare come se nulla fosse. Ciò vale soprattutto per l’Europa occidentale, che vive in una profonda crisi di identità, mentre una volta era chiaramente segnata dal cristianesimo. L’Europa deve risvegliarsi dalla sua indifferenza, che è una falsa tolleranza. Ma, d’altro canto, c’è il rischio di comportarsi come propagandisti di una lobby minoritaria ovvero settaria. In questo senso, no al fanatismo militante come lo incontriamo in molte vecchie e nuove sette, che sono diventate oggi una nuova sfida ovunque nel mondo. Soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, occorre uno stile dialogante, cioè un atteggiamento di rispetto anche verso coloro che vengono definiti lontani, che conservano magari un legame tenue, ma resistente, con la Chiesa, e un atteggiamento di rispetto verso la cultura moderna, la cui legittima autonomia è riconosciuta dallo stesso Concilio. Non vogliamo e non possiamo imporre la fede, che per sua natura non può essere imposta; vogliamo – come dice il Concilio Vaticano II nella costituzione pastorale Gaudium et spes al paragrafo 1 – condividere le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, e, tramite tale vita di condivisione, dare testimonianza della nostra fede.
E in questo c’entra de Foucauld
KASPER: Questo atteggiamento era tipico di Charles de Foucauld. Basti pensare alla sua amicizia con i tuareg, e soprattutto con il loro capo Musa ag Amastan. Egli non faceva nulla per convincere e fare proseliti. Il massimo che poteva fare era rendere avvicinabile Cristo stesso, portando il tabernacolo nel deserto. Ma poi non ideava strategie elaborate. Viveva semplicemente la sua vita di preghiera e lavoro. Solo dopo la sua morte ha trovato seguaci, seguaci che vivono oggi fra i più poveri condividendone le esperienze quotidiane.
Negli ultimi tempi, nelle discussioni in merito alle radici cristiane dell’Europa, anche alcuni pensatori laici hanno rimproverato la Chiesa di timidezza nel difendere e proporre verità e valori. Come giudica queste accuse? E cosa ne direbbe de Foucauld?
KASPER: L’accusa mossa spesso contro la Chiesa nel suo insieme non è certamente fondata; il Papa e molti episcopati europei si sono espressi chiaramente e vigorosamente a favore dell’identità cristiana in Europa. Ma allo stesso tempo è vero che in alcuni ambiti e circoli all’interno della Chiesa esiste una certa timidezza e debolezza nel difendere e proporre la verità e i valori cristiani. Tale atteggiamento scaturisce spesso da una fede fragile che ha perso le sue certezze, la sua determinazione, che confonde la tolleranza con l’indifferenza. Charles de Foucauld non ha declamato grandi slogan: il suo comportamento è nato da una convinzione del tutto diversa. Egli è partito da una fede solida e vissuta, che in sé stessa, anche senza grandi parole, era una testimonianza forte e coraggiosa, ma anche umile, del messaggio cristiano e dei suoi valori. Senza pretese di possesso, senza atteggiamenti di sfida. Alla fine del 1910 scrive: «Gesù basta. Là dove egli è, nulla manca. Chi si appoggia a lui è forte della sua forza invincibile». Una testimonianza così può indurre gli altri a riflettere, a porsi domande, può suscitare ammirazione e, se Dio concede la grazia, anche il desiderio di condividere questa vita secondo i valori cristiani. Difatti, la nostra difesa dell’identità cristiana dell’Europa sarà convincente solo se viviamo i valori che difendiamo. Non sono le parole, è la vita che convince. Scriveva a de Foucauld il suo maestro spirituale, padre Henri Huvelin, in una lettera del 18 luglio 1899: «Si fa del bene con quello che si è, ben più che con quello che si dice… Si fa del bene quando si è di Dio, si appartiene a Lui!». E quando questo accade, non occorre inventarsi altro. Basta «rimanere dove si è, lasciar penetrare, crescere e consolidare nell’anima le grazie di Dio, difendersi dall’agitazione».
Anche le richieste di perdono per i peccati passati sono state giudicate da alcuni come espressione di debolezza. Lei cosa dice in merito, alla luce della figura di de Foucauld?
KASPER: Charles de Foucauld aveva ragione a chiedere perdono per la sua vita sprecata prima della sua conversione. Egli ci mostra che un nuovo inizio è sempre possibile, per grazia divina. Anche noi in ogni celebrazione eucaristica iniziamo con un atto penitenziale; questo sarebbe completamente impensabile in un raduno di partito, di un’azienda o di una qualsiasi altra associazione. Così facendo, esprimiamo la nostra debolezza, il che è un atto di sincerità, ma allo stesso tempo manifestiamo la forza del messaggio cristiano della misericordia e del perdono, cioè della possibilità che Dio possa realizzare un cambiamento e dare un nuovo inizio anche a una storia umanamente senza via d’uscita e senza speranza. De Foucauld in una sua meditazione scrive: «Non c’è peccatore così grande, né criminale così incallito, al quale tu non offra ad alta voce il Paradiso, come l’hai dato al buon ladrone, al prezzo di un istante di buona volontà». Chiedere perdono non è dunque una debolezza ma una forza; è espressione di una speranza che non dimentica, non rinnega né sconfessa il passato e che allo stesso tempo non si sente incatenata al passato e può guardare al futuro. Chiedere perdono è espressione della libertà cristiana, libertà che noi conosciamo in Cristo. Chiedere perdono non è un atto politically correct, ma ha a che fare con la natura della Chiesa e con il suo messaggio.
I tuareg dell’Algeria cosa hanno in comune con noi uomini delle realtà urbane?
KASPER: De Foucauld porta Gesù Cristo tra «coloro che non lo cercano». Non è sbagliato dire che, sotto alcuni aspetti, la situazione dei tuareg dell’Algeria è simile a quella dei nostri contemporanei nella realtà urbana, ovvero alla nostra stessa situazione, anche se esteriormente la differenza è eclatante; da loro si tratta di povertà materiale, da noi di povertà spirituale. Il deserto è certo diverso.
Ma il punto comune consiste nel fatto che né loro né noi siamo veramente “a casa” in nessun luogo; siamo in cammino, siamo nomadi. Abbiamo inoltre in comune una certa letargia. Spesso vaghiamo senza una meta precisa e una solida speranza. Siamo dunque un popolo presso cui la predicazione del Vangelo e la conversione sono difficili. In questa situazione, Charles de Foucauld ci dà una risposta profetica ma anche esigente, in fondo l’unica risposta possibile: una vita evangelica che manifesta l’alternativa profetica del Vangelo, rendendolo nuovamente interessante ed attraente. Così Charles de Foucauld è una figura luminosa, e può essere anche un valido contrappeso di fronte al pericolo di un imborghesimento e di una noiosa banalizzazione della Chiesa.
I poveri sono per de Foucauld i destinatari prediletti della promessa di Cristo. Non le sembra che la percezione della predilezione dei poveri si sia appannata?
KASPER: I poveri e i piccoli sono secondo Gesù i prediletti di Dio e i destinatari preferiti della sua evangelizzazione. Anche san Paolo ci dice che nelle comunità primitive vi erano pochi ricchi, pochi sapienti, pochi potenti e pochi nobili. Il Concilio Vaticano II ha riscoperto e ribadito questo aspetto; dopo il Concilio si è molto parlato dell’opzione preferenziale per i poveri. La teologia della liberazione si è ispirata a questo messaggio, ma a volte lo ha strumentalizzato a scopi ideologici; così facendo, è divenuta ambigua. Ciò non significa però che il messaggio non sia più valido e attuale. Al contrario. La grande maggioranza dell’umanità vive attualmente al di sotto della soglia di povertà, e questo è vero soprattutto in Africa, dove Charles de Foucauld ha vissuto, fra i poveri. Ci auguriamo allora che la sua beatificazione riproponga in un senso assolutamente non ideologico l’urgenza di affrontare la sfida della povertà, sia materiale che spirituale, e ci mostri la risposta evangelica, da lui vissuta in modo esemplare, che il mondo odierno deve dare.
Primo Mazzolari (1958)
Nel pomeriggio di ieri, dopo dieci giorni di pioggia, ci fu una schiarita anche al mio paese, uno dei tanti bambini che giocano sotto la mia .finestra è venuto dentro: «Don Primo, c’è il sole.’»
Sono andato a vederlo, prima di tutto perché il sole, dopo tanta caligine, è la speranza, la gioia; e poi perché all’invito di un bambino non ci si può sottrarre senza mancare a quella delicatezza che il bambino ha sempre diritto di avere specialmente da parte di un sacerdote.
E ho visto il sole.
Vorrei quasi dirvi che Charles de Foucauld è un po’ il sole.
E vorrei dirvi: guardiamolo insieme, avremo la certezza che nella Chiesa c’è quello che noi sentiamo anche quando non riusciamo a vederlo chiaramente.
Lo conoscevo anche prima, ma il doverne parlare m’ha dato un motivo di più per guardarlo più cordialmente (quando si guarda col cuore).
Voi pure lo conoscete.
E nato nel 1858. Veniva da una famiglia nobile. Era un ufficiale di cavalleria francese. Ha dimenticato una tradizione familiare, che era cattolica. Ha vissuto come ha potuto. Ad un certo momento ha persino rinunciato ad essere ufficiale dell’esercito, perché la strada che stava battendo non era conforme neppure alle tradizioni militari francesi.
E c’è il ritorno alla fede.
Io credo che la grazia si sia servita di questi poveri arabi del deserto per far sentire a quest’anima che cosa c’è di misterioso e di grande in ogni creatura umana, anche nell’ultima delle creature umane.
Questo ritornare, questo convertirci da strade che sono così lontane e anche tante volte così diverse, non vi dà l’impressione, miei cari amici, di una vitalità cristiana cui bisogna che noi poniamo, anche di passaggio, una breve attenzione?
Tutte le altre idee, quando le abbiamo buttate «dietro» le spalle, non ci infastidiscono più.
Solo l’idea, o meglio la realtà, di Cristo non è mai “dietro” abbastanza.
Io penso che Charles de Foucauld ha incontrato Cristo nel deserto. Lo ha visto attraverso creature che forse non avevano mai sentito parlare di lui,
Egli ritorna da un’esperienza di povera vita umana. Uno dei segni vitali della misericordia di Dio è questo ricomporre le nostre povere vite da qualsiasi dolorosa esperienza, è questo cavar fuori quello che giustamente Charles de Foucauld chiamava l’adorazione redentrice.»,
Il suo ritorno non è un ritorno, che si ferma. Dio aveva qualcosa da chiedere a questa creatura, e voleva da lui qualcosa che forse subito non fu visto e forse soltanto all’ultimo momento della sua vita Charles de Foucauld ha potuto piuttosto sentire che vedere.
Ci sono dei momenti che non sono e non saranno mai risolti dentro di noi come cristiani. Uno di questi momenti fondamentali è appunto questo: come si concilia il momento puro della fede con il momento puro dell’azione?
Noi siamo in continuo affanno. Non vi accorgete che facciamo così fatica a dire basta a questa nostra giornata, per cui questo camminare del mondo, questo andare del mondo finisce per toglierci il raccoglimento del nostro animo che la religione deve soprattutto disporre dentro di noi?
C’è un mondo che va e noi gli corriamo dietro; c’è un mondo che si perde e noi lo rincorriamo attraverso una strumentalità che non sappiamo più come adattare, come aggiornare, e tutto finisce per diventare una tremenda sofferenza.
Adesso guardiamo un momento Charles de Foucauld.
Egli era di un mondo che aveva perduto la fede, perché aveva avuto l’impressione che la fede fosse rimasta indietro al suo pensiero che camminava.
C’è di più: un’altra parte di quel povero mondo in cui egli viveva si allontanava dalla Chiesa, perché sentiva la Chiesa dall’altra parte. Il sacerdote si era staccato, gli altri lo sentivano lontano, i poveri lo sentivano di là.
De Foucauld ha avvertito queste due sofferenze: ha mantenuto il suo cuore vicino a quella categoria da cui era uscito; e ha cominciato a scendere, a scendere vicino a quelli che sentivano la Chiesa dall’altra parte.
Il mistero dell’Incarnazione è tutto qui. É Gesù che discende e si fa ultimo. Questo è il metodo che il santo ha sempre sentito in una maniera singolare e soprattutto in una maniera che non lo può più frenare.
Vorrei dirvi una parola intorno a quello che è lo stato d’animo di un uomo, il quale, avendo vissuto una certa vita e avendo fatto un’esperienza coloniale, si è ritrovato in una realtà nuova. Chi ha avuto occasione di avvicinare, durante la prima guerra, alcuni ufficiali coloniali francesi, ha avvertito una singolarità di preparazione umana. Furono i più cari ed anche i più utili incontri del mio servizio militare in Francia. Erano uomini di alta tempra, pieni di difetti se volete, militari fin che volete, ma il senso della responsabilità, che avevano ricevuto attraverso la vita della colonia, quel sentirsi responsabili di povere vite, che valevano così poco di fronte alla legge, ma che incominciavano a valere molto davanti alla loro coscienza, anche se non molto cristiana, certo profondamente umana, li aveva trasformati.
Questo itinerario, questa scoperta dell’uomo, prima che del figlio di Dio, voi l’avvertite soprattutto in Charles de Foucauld. Che cosa hanno detto questi poveri arabi, che cosa hanno rivelato a questo esploratore, a questo ufficiale coloniale. Le rivelazioni più grandi sono quelle che nascono da queste comunioni umane. Gli incontri che determinano le decisioni fondamentali il Signore li fa fare a questa maniera.
E allora io capisco che cosa diventa per Charles de Foucauld il momento di Nazareth. Questi trent’anni di vita di Cristo, senza parole, nella comune condizione, in un piccolo paese, dove niente, niente diceva del valore divino che egli portava.
Ecco perché Nazareth diventa il momento ideale del Vangelo che egli deve realizzare. E lo diventa attraverso l’accettazione dell’ultimo posto, che nessuno gli potrà portar via.
Perché l’importante è questo: l’amore all’ultimo si manifesta nell’essere come lui, non nell’avere pietà di lui. C’è qualcosa nella nostra maniera di voler bene al prossimo che ha bisogno di essere riveduta, perché altrimenti noi rimarremo sempre in una insufficienza di carità che non ci aprirà mai i cuori dei nostri fratelli. Ad un certo momento abbiamo l’impressione di poter proteggere qualcuno. Abbiamo un senso di pietà che nasce da una superiorità, anche inconsapevole, ma che è sempre una superiorità.
De Foucauld ha sentito che questa non è la maniera vera di voler bene ai figli di Dio. Egli è diventato come uno di loro. Niente di più. Ha accettato di pensare come loro, non soltanto di vestire come loro. Lo sforzo che fa per poter apprendere bene il loro linguaggio non è che un mezzo per potersi identificare con loro, cosicché nessuno potesse sentirlo diverso. La più grande carità è appunto questo nostro divenire come gli altri, in modo che essi non abbiano da far fatica, direi che non abbiano neanche da alzare gli occhi, per poter ritrovarci: basta allungare la mano, basta guardare l’orma dei nostri piedi, basta vedere come si vive.
E allora voi capite che cosa rappresenta la presenza di un cristiano nel deserto e in mezzo ai poveri abbandonati dell’Africa. Perché Charles de Foucauld non ha predicato il Vangelo a questi nostri poveri fratelli del deserto? Perché non è diventato un apostolo? Sono domande che è bene che noi ci poniamo, perché il problema dell’apostolato incomincia a diventare preoccupante per noi.
C’è una situazione di animi, non soltanto in quel mondo che è il mondo africano ed il mondo asiatico che non conosce ancora il Signore, ma anche nel nostro mondo, che ci mette davanti il modo di fare di Charles de Foucauld come qualcosa che può farci riflettere.
Vedete, bisogna dissodare certi terreni. Oggi c’è una tale indisposizione verso la religione, in certi ambienti, che non possiamo dire una parola senza che questa parola venga interpretata piuttosto male che bene. C’è qualcosa che va avvertito prima della parola. Se il Cristo di Nazareth non ha detto una parola per tanti anni, vuol dire che ci sono situazioni spirituali che non hanno bisogno di parole ed a cui forse anche una sola parola potrebbe essere piuttosto di allontanamento che di accostamento.
Charles de Foucauld era lì, vicino a quella gente. Non dico che volesse loro bene, perché è una parola che dice niente, tanto è abusata. Era con loro.
Forse non sentivano da lui parlare di Cristo, però ne vedevano il simbolo sul suo abito che era come il loro. Ad un certo momento, non potevano non avvertire che qualcuno era lì con loro. Prima di organizzare, prima di predicare bisogna che qualcuno si accorga che c’è Qualcuno. E io credo che per far accorgere quelli che sono lontani che c’è Qualcuno questa sia la strada migliore.
Voi mi domanderete quando si arriverà a far sentire per questa strada il senso del Cristo.
A noi non importa il tempo, come a noi non importa vedere quali possano essere le conseguenze di queste maniere di vivere vicino alla povera gente che non conosce ancora il Signore.
Da questa maniera di comportarsi di Charles de Foucauld noi incominciamo a intravvedere un’indicazione di grande importanza. Che cosa dobbiamo fare per questi nostri fratelli d’Africa e d’Asia? Charles de Foucauld che cosa porta laggiù di questa religione che ha dentro? Porta l’amore senza limiti di queste creature.
Incomincia a diventare il fratello di tutti, il fratello universale. E badate che non si stacca dal suo mondo, perché ogni distacco dal cuore di un fratello è una diminuzione della carità Egli non si dimentica di essere francese, ha le sue relazioni con gli ufficiali, mantiene i contatti. Ma nel medesimo tempo è uno che è andato di là, è andato di là con tutto il suo cuore di fratello; ed è rimasto qui con tutto il suo cuore di fratello.
La cosa più difficile è appunto questa: non distaccarsi da nessuno. Se io vado di là, con i poveri, e mi dimentico che qua ho dei fratelli, c’è qualcosa della mia carità che viene diminuita Se ad un certo momento il mio grido diventa un grido e: parte, naturalmente m’impedisce di allargare le braccia, di spalancare il cuore dove più c’è bisogno.
I vincoli di questa carità, che voi vedete attraverso la manifestazione così semplice ma anche così concreta di Charles de Foucauld, sono quelli che finiscono per farci capire come tutti; deve arrivare a questo momento di unione. I francesi e i tuareg gli volevano bene. Egli era diventato il fratello di tutti. Era diventato il fratello di tutti, perché aveva rinunciato ad avere quello che avrebbe potuto facilmente avere Ha accettato il niente degli altri, e lo ha rivissuto attraverso questa espressione di totale dedizione, per cui nessuno sentiva di non aver posto nel suo cuore.
Quando voi avvertite l’incapacità del mondo cristiano di ritrovare fiducia presso la gente africana, quando voi vedete questa nostra povera Europa cristiana che non sa neanche trovare il rispetto fondamentale di quella gente, voi capite bene come abbiamo bisogno di guardare a Charles de Foucauld come all’unico modo di congiungere quella gente a noi, di mantenere quello che non deve essere distrutto e che purtroppo stiamo distruggendo, perché non abbiamo la fede fondamentale in quello che è l’offerta e soprattutto il dono della nostra fraternità cristiana. Charles de Foucauld non ha fatto qualcosa di tangibile, non ha avuto successo, voi sapete com’è finito.
Quando è scoppiata la guerra, nel 1916, lo hanno tradito, ed è morto nel suo eremo, che all’ultimo momento era diventato un fortino. Strana situazione, e che grossa pena per una anima come la sua veder trasformare la sua piccola casa di eremita e di marabutto in un fortino! Però, vedete, le casse con le munizioni e i fucili sono rimaste chiuse: nessuno ha sparato, nessuno si è difeso.
Voi mi domanderete se questa è una maniera d’incontrare dei poveri.
E allora io vi domando un’altra cosa: che ne pensate voi, del Calvario? Perché, in fondo, quando vedete un de Foucauld che muore a quella maniera, voi non potete non metterlo vicino al Calvario.
Vi faccio un’altra domanda: sapete voi trovare un altro modo per poter fare la pace tra questi due mondi? E guardate che quando dico di fare la pace tra questi due mondi io vi posso parlare di altri mondi. Qual è il linguaggio che può essere capito? Qual è la parola che la religione, la nostra religione, ha in questo momento per avvicinare questa povera umanità, che altrimenti non ha più la maniera d’intendersi?
Non si può non vederla attraverso questa manifestazione, che a un certo momento pare la più assurda di tutte.
Eppure io mi domando se non è questa la strada della pace. Io non ne vedo un’altra.
Voi potete contare su tante altre maniere, voi potete presentarmele come volete, ma ad un certo momento non rimane che questa espressione: una croce distesa e un povero uomo il quale viene legato con le mani e i piedi e viene ucciso in quella maniera barbara che voi conoscete.
Miei cari amici, forse l’aspetto più misterioso della nostra religione, e il più conturbante per molti di noi, è proprio questo:
Eppure, se la pace noi la vogliamo accostare cristianamente, se vogliamo disarmare i nostri animi, se vogliamo togliere da questo nostro povero mondo l’incubo che c’impedisce di respirare da uomini e da cristiani, bisogna che noi incominciamo a chiederci se certi assurdi del comandamento «tu non uccidere», assurdi del Vangelo, di cui voi conoscete bene le espressioni che non vanno toccate senza mancare all’intangibilità della parola divina, se non sono queste le strade su cui dobbiamo camminare.
E vedete che vi convergono gli spiriti anche attraverso esperienze che non sono esperienze religiose.
In fondo, o noi accettiamo una dichiarazione d’amore che va fatta senza restrizioni, senza misure, oppure dobbiamo diventare quella povera gente che ormai siamo. E non sappiamo neanche dove ci potremo fermare, e soprattutto quali saranno le conseguenze tremende di questa dimenticanza dell’espressione cristiana.
Perché la vitalità del cristianesimo, la sua prova più grande, in questo momento, è su questo piano della pace.
Noi continuiamo ad andare a prestito di composizioni dove lo spirito cristiano finisce per essere imprigionato in formule che sanno ancora di paganesimo o di razionalismo.
Abbiamo tradizioni che qualche volta c’impediscono di fare apertamente e decisamente certi distacchi. Crediamo di rinnegare qualche cosa di quella che è la civiltà cristiana. Abbiamo l’impressione di staccarci da maniere di vedere consacrate e da una storia che non è una storia cristiana da una maniera di vedere che non è una maniera di vedere cristiana.
E abbiamo assunto delle tremende responsabilità. Perché la più tremenda responsabilità è quella di non saper trovare all’infuori di un equilibrio di potenza una maniera di guardare in faccia i nostri fratelli.
Abbiamo bisogno di poterci distaccare da queste forme aggiunte alla maniera veramente originale cristiana che è il comandamento divino «tu non uccidere». Perché, prima ancora di una giustizia tra classe e classe, c’è da mettere una fraternità tra questi popoli, i quali hanno bisogno di toccare con mano che c’è qualcuno che ha accettato, come ha accettato Cristo, come ha accettato Charles de Foucauld di diventare anatema per qualche cosa che deve essere assolutamente e direi immediatamente guardato come la strada regia del cristiano in questo momento.
Quando Charles de Foucauld muore, l’ufficiale francese che per primo è entrato e ha visto lo spettacolo desolante, ha trovato vicino a Charles l’ostensorio: il martire e Cristo vicino. Forse non è a caso che queste due realtà, che questi due misteri di amore si siano congiunti nell’offerta suprema. La cattedrale nel deserto si costruisce a questa maniera, soltanto a questa maniera. Qui non è più questione di dire: noi urtiamo la civiltà! Io non so che cosa possiamo portare al mondo, miei cari fratelli, se non la speranza dell’amore.
E allora lasciate che su questa nuova cattedrale del mondo noi possiamo intravvedere come si congiungano le membra sparse di questa umanità, come attraverso un fratello universale si possano trovare le maniere di arrivare a queste povere sofferenze umane che sotto qualsiasi colore e sotto qualsiasi accento di lingua hanno l’espressione del Cristo sofferente. Nell’Africa sono tornati in questi ultimi anni i Piccoli Fratelli e le Piccole Sorelle di Charles de Foucauld.
Che cosa importa che il mondo europeo non abbia più la possibilità di dire: questa è la mia terra, questo è il mio impero! Un giorno, uno dei suoi figli più nobili, una di quelle creature che aveva nell’anima anche la forza di rendere testimonianza alla sua terra, alla Francia, attraverso una dedizione eroica, ha sentito che non è la forza, che non sono certi metodi di polizia ignobile, che hanno portato il disonore anche alla civiltà europea, quelli che possono affermare la superiorità di un mondo. C’è un impero che si afferma dove una croce dà un cuore, l’unico simbolo che egli portava, e dove due mani sono piegate nell’adorazione eterna.
E così, vedete, che si adora Iddio. Lo si adora in spirito e verità, attraverso una dichiarazione che, se non abbraccia tutti gli uomini, ricordatevi, miei cari amici, che noi dovremo accettare l’umiliazione profonda di sentire che una civiltà anche meno nobile della nostra ha trovato la maniera di resistere a una civiltà cristiana degradata.
Al di sopra di tutte le affermazioni, c’è questa fraternità che non è una donazione, che non è qualcosa che noi regaliamo, ma semplicemente il ritrovarci, ultimi anche noi, come fratelli degli ultimi. Soltanto in questa maniera noi potremo trovare la dichiarazione che non ammetterà dubbi, davanti a cui nessuno potrà chiudere gli occhi e soprattutto chiudere il cuore.
Da Discorsi, Dehoniane, Bologna, pp. 596-604. [riportato in Mariangela Maraviglia, Primo Mazzolari nella storia del Novecento – Edizioni Studium, Roma,2000, pp. 161-170.]
di Carlo Ossola* – 19/06/2006
Nell’idioma dei nomadi del deserto il monaco, ucciso novant’anni fa, incontrò una sintonia con la sua vocazione che lo spronò a raccogliere parole e canti degli «uomini blu»
«Ti rendo grazie, Dio che conservi le creature, / che m’hai dato un mehari e la sua bardatura, / e hai messo l’anima nel corpo ov’essa viaggia col pensiero» (Chants Touareg, Parigi, Albin Michel, 1997). Chi raccoglie, di duna in duna, di tenda in tenda, tra carovane e lunghe settimane di polvere e silenzio, questi canti tuareg è Charles de Foucauld: quasi seimila versi registrati a mente e su quaderni in più anni di deserto sino al 1907, e poi copiati e tradotti alla lettera, in francese, sino al 28 novembre 1916, giorno in cui annota: «Fini poésies touarègues». Tre giorni dopo, il 1 dicembre 1916, Charles de Foucauld è assassinato nel suo romitorio di Tamanrasset, perché il Male della guerra non ha confine. Troveranno nel suo diario una nota asciutta: «Vivi come se tu dovessi morire martire oggi».
Moriva così, nel canto e nel dono di sé, una delle più nobili figure del Novecento, disparendo per anni nell’oblio, risorgendo poi grazie alla parola di amici che avevano custodito quel ricordo. Tra essi, Louis Massignon, grande arabista e studioso della mistica, professore poi al Collège de France, al quale Charles de Foucauld aveva scritto, il 15 maggio 1910, dal fondo del deserto algerino: «Siamo tutti così fragili! Ma non lo vediamo. Il nostro Sposo ci fa un gran dono nel mostrarlo a noi. Santa Teresa preferiva un giorno di conoscenza di sé a un giorno di consolazione». Il nostro Sposo: il deserto non è il gran vuoto, la negazione dell’asceta, ma è l’immenso ascolto degli inni che il vento porta dalla notte dei tempi, dal profondo dei cuori, che unisce le anime, i corpi, progenie del cammino verso la Tenda: «Gloria a Dio che effonde / calore sul cuore del figlio di Adamo; / penetra nei suoi atrii e lo infiamma. / Colui che non ti è fratello né parente, / che non è con te, delle tue parti, / ove vi vedete e frequentate, / in te prende discendenza / bimbi che hanno grazia e sillabe cinguettano” (Le Mariage, dai Chants Touareg).
Mentre il mondo si fa piccolo, e stretto e arido è il presente, la parabola di Charles de Foucauld indica una traccia: mettersi in viaggio non per l’altrove, ma per l’interno: «Ricordatevi – scriveva a Massignon da Béni-Abbès, nell’estremo sud della regione di Orano, il 5 aprile 1909 – che avete un fratello nel Sahara, e che se la vostra anima ha bisogno di qualche mese di santo Balsamo – quel santo Balsamo che è sovente il più imperioso bisogno dell’anima e il coronamento della vita terrena – ebbene il santo Balsamo vi attende nell’Ahaggar, ove sarò fra due mesi».
In quei lunghi anni di deserto (1901-1916) apprende che noi siamo il nostro limite: dalla sabbia, dal vento, dai colori degli orizzonti, dall’infinita eco delle notti registra le voci di tutto ciò che non ha confine: amore, memoria, desiderio, canto. I Tuareg nomadi sono il suo tesoro: passi, mantelli, carovane, qualche sosta, solitudini. Allo scoppio della guerra aveva quasi concluso la sua ciclopica opera: farsi la memoria di un popolo. Scrive alla sorella il 10 febbraio 1914: «I miei lavori sulla lingua tuareg avanzano celermente. Sto ultimando: 1. Dizionario sintetico tuareg-francese; 2. Dizionario nomi propri tuareg-francese; […] 5. Raccolta di poesie e proverbi tuareg».
Chi legga oggi il quasi introvabile Dictionnaire Touareg-Français, in quattro volumi manoscritti, riprodotti in facsimile dall’Imprimerie Nationale de France nel 1951, rimane incantato dalla bellezza di quelle definizioni che sono orlo d’infinito, colore dell’invisibile: aridità e rivoli, vampe brunite, incandescenze d’orizzonti, rosso su rosso, come gli anni di Picasso, materia pura: «Teggedeout: il fatto di essere rosso cupo, o rossastro intenso, o d’essere bruno-rosso; il fatto di essere d’un tono intermedio tra il rosso cupo, il bronzeo, il rossastro intenso». Ma anche lentissime gocce di pensiero: «Belet: raccogliere all’interno [un liquido] per sgocciolìo insensibile lungo le pareti, il soggetto essendo un pozzo, un recipiente, che poco a poco s’empia, quasi per trasudazione. O ancora un recipiente che, dopo aver contenuto un grasso, come burro od olio, del quale sia stato svuotato, trattenga, alle sue pareti interne, un po’ di materia grassa che, riscaldata, coli goccia a goccia e si raccolga sul fondo. Per estensione: raccogliere nel proprio interno i pensieri, raccogliersi e riflettere». Ma anche l’abbandonarsi al nulla della pura perdita di sé: «Bennen: non guadagnare nulla, non avere profitto. Può avere per soggetto qualsiasi persona, che non guadagni nulla perché non fa nulla, o che lavori in pura perdita perché il suo lavoro non gli riesce o perché non riceve il suo salario».
Quasi un’autobiografia: quella «pura perdita» del sé, che è l’unica cosa di noi che sia in nostro possesso. Percorrere quei quattro volumi è più che aver visto tutti i continenti: è aver raggiunto il sesto, quello del proprio cuore. La Chiesa del XX secolo ha celebrato, ha elevato agli altari coorti di santi: ha coronato se stessa, le proprie opere, le proprie schiere, miracoli, conversioni, santuari, modelli di vita. La beatificazione di Charles de Foucauld è giunta tardi, un giorno di novembre 2005: poiché egli non operò nulla, fu – come il suo Cristo – soltanto efsi: «Disgregare, disgregarsi. Si dice di una casa, di un muro, di un rifugio, di una tenda, di un tavolo, di una cassa, di un orologio. Per estensione: smontare, in maniera di formare con i resti una sola massa. Significa altresì: liquefarsi, il soggetto essendo una materia suscettibile di stato solido o liquido: burro, grasso, ghiaccio, neve, ecc. In senso figurato: pacificarsi, essere pacificato».
Charles de Foucauld: il sant’Efsi, pace di un solco di silenzio nel rombo della ferraglia che chiamiamo storia.
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É possibile leggere il Dictionnaire Touareg-Français a partire del link seguente: https://archive.org/details/DictionnaireTouareg-franaisDialecteDeLahaggar
É anche interessante l’articolo di Carlo Ossola, sull’Avvenire del 15 novembre 2020: https://www.avvenire.it/agora/pagine/de-foucauld-e-la-lingua-del-deserto
*Carlo Maria Ossola (Torino, 11 marzo 1946) è un filologo e critico letterario italiano, professore al Collège de France dal 2000.
Sono 72 anni che l’ho incontrato, e da allora non mi ha più lasciato. Si, Charles de Foucauld è entrato nella mia vita durante l’inverno 1921 mentre leggevo la storia della sua vita scritta da René Bazin. Avevo 16 anni. Il suo amore per la persona di Gesù e l’estrema generosità del suo carattere avevano conquistato il mio cuore. Da quel giorno si può datare un’unione tra noi due che ha orientato tutta la mia vita e non è mai venuta meno. Ed ora, al crepuscolo della mia esistenza terrestre sento di poter affermare che gli debbo tutto quello che vi è stato di meglio nella mia vita. Vorrei ringraziarlo e condividere con i fratelli e le sorelle ciò che ho ricevuto da lui.
Comunque, durante la mia vita religiosa, le relazioni con fr. Charles, questo uomo solitario e assoluto dalla vita rude e austera ma dal cuore tenero e gioioso, pieno di un amore sempre fresco per il suo “beneamato fratello e Signore Gesù”, queste relazioni non furono sempre facili!
Mi succedeva di stancarmi dello stile delle sue meditazioni, così immaginose, così poco conformi a quella che fu realmente la vita ed il volto di Gesù. Certe volte mi infastidiva con la molteplicità dei suoi propositi riguardanti, di frequente, osservanze minuziose. E poi, c’era la maniera di vivere dei piccoli fratelli descritta dal suo regolamento, che era impraticabile, irrealistico, per non essere mai stato sottoposto alla verifica dell’esperienza. Ebbene sì, so tutto questo.
Ma tornavo sempre da lui, sedotto dalla semplicità del suo amore per Gesù, amore che cercava di esprimere in ogni cosa e ad ogni istante delle sue giornate. Egli era come soggiogato da questo amore fino a perdere, a volte, un po’ di buon senso. Ed era proprio questo che mi riportava immancabilmente da lui. Ridurre tutto all’Amore e ad un amore che non teme di essere pazzo o ridicolo. Questa follia, queste imprudenze senza limiti, ecco cosa mi faceva del bene, cosa mi rinfrescava il cuore e frustava il mio temperamento ragionevole, la mia viltà, la mia paura di donare tutto senza contare. Trovavo in lui coraggio, purezza senza ombre, e un cammino di ascesi, quell’ascesi senza la quale ci trasciniamo, prigionieri delle nostre pesantezze, delle nostre mediocrità e dei nostri pigri egoismi.
Non ho mai tentato di adattarlo a quello che vivevo io, al mio ambiente, alla mia epoca. Lo ho preso come era, come aveva pensato, sperimentato e vissuto.
http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/voillaume_pregare_per_vivere2.htm
Da anziano, riflessioni sulla nostra storia
René Voillaume
Il venerdì 22 settembre 1933, verso le cinque di sera, fratel Marcel, fratel André e io arrivavamo al bordj di El Abiodh provenienti da Géryville. Appollaiato sul carico della camionetta, don Le Cordier, che veniva dal Marocco, aveva tenuto ad accompagnarci per qualche giorno.
Lo avevo conosciuto al seminario di Issy les Moulineaux, era stato ordinato due anni prima di me. Sarebbe divenuto più tardi il primo vescovo della diocesi di Saint Denis, a nord di Parigi. Fummo accolti da un forte vento di sabbia che ci accompagnò lungo tutta la pista. La prima notte nella nostra fraternità fu per noi un avvenimento. Era come un sogno che diventava realtà! Dopo tanti anni di attesa e di preparazione, eravamo finalmente nel deserto e in terra d’islam per fondarvi la fraternità tanto sospirata da fr. Charles. II 6 ottobre, festa di san Bruno, il grande solitario fondatore della Certosa, fu considerato il primo giorno della fondazione. Celebrammo la prima messa. Nel pomeriggio prendemmo il tè da un nostro vicino, Si Bù Amama dalla barba colorata con l’henné, diventerà uno dei nostri amici più stretti e più fedeli.
Arrivavamo a El Abiodh per condurre una vita religiosa di silenzio, di solitudine e di preghiera. Concepivamo tuttavia questa vita comune e claustrale come inserita nel mondo dell’islam. La volevamo tale per un adattamento il più approfondito possibile alla mentalità religiosa musulmana e ai costumi della popolazione. Al seguito di padre de Foucauld, non era nel deserto che noi andavamo innanzitutto, ma all’incontro con una popolazione che avremmo accolto nella nostra vita, tramite la nostra testimonianza e nella nostra intercessione. Avevamo un vivo desiderio di farci adottare dalle tribù degli Ouled Sidi Cheikh.
Proprio cinquanta anni fa, il periodo che va dal febbraio al maggio del 1947, ha visto lo svolgimento di alcuni avvenimenti che avrebbero marcato profondamente l’orientamento e lo sviluppo della Fraternità dei Piccoli Fratelli di Gesù, e per loro tramite l’insieme degli altri gruppi e istituti che trovarono la loro radice e la loro spiritualità appunto a seguito di questi fatti. Da molti punti di vista quell’anno 1947 fu di una importanza fondamentale per l’avvenire delle fraternità. Le piccole sorelle di Gesù continuavano le loro esperienze di lavoro in fabbrica mentre i fratelli stabilirono la loro prima fraternità operaia ad Aix-en-Provence; la spiritualità della fraternità si precisava e si esprimeva in diversi documenti. La vocazione e la missione delle fraternità operaie erano definite in un insieme di “conferenze” fatte ai novizi o di lettere indirizzate ai fratelli e che saranno pubblicate tre anni dopo con il titolo “Au Coeur de Masses“. [“Come loro” ed. italiana]
Questo insieme di documenti era stato sottoposto all’esame dei vescovi responsabili delle fraternità che li avevano approvati, come anche piccola sorella Magdeleine. La fondazione di Aix era stata fatta in profonda unione con lei. Comunque, l’esperienza di tali fondazioni era tutta da fare ed il nostro entusiasmo non era allora totalmente privo di illusioni.
Dopo oltre dodici anni di vita claustrale nel deserto, ci trovavamo improvvisamente incorporati nel grande movimento missionario da poco nato nella Chiesa di Francia.
Sempre di più l’uomo non sarà convinto
che dai fatti concreti, viventi.
Mai il mondo ha avuto tanto bisogno di segni esteriori della Chiesa. I valori più soprannaturali, i più divini, la Chiesa deve esprimerli esteriormente. Il realismo dello spirito contemporaneo, il tedio che provoca la diffusione, tramite la stampa e la radio, di discorsi e ideologie fanno sì che sempre di più l’uomo non sarà convinto che dai fatti concreti, viventi. Ma quali segni il mondo aspetta soprattutto dalla Chiesa?
È necessario che, visibilmente la Chiesa esprima tramite i religiosi, i battezzati, i militanti, i preti quel distacco e quella povertà segno che si preoccupa prima di tutto dei veri valori divini. Questa povertà deve essere l’attesa di un’altra cosa; non è solo interiore, deve apparire all’esterno e tradursi in un linguaggio accessibile agli uomini del nostro tempo, questo è un caso in cui cose materiali, di per sé indifferenti, acquisiscono una certa importanza. Immenso interrogativo posto alla Chiesa: non è triste constatare a volte quanto siano pochi coloro che lo risentono con angoscia?
Il secondo segno della Chiesa, ed è più grande del primo, è il segno del vero amore dell’uomo e del rispetto che gli si deve. Anche a questo proposito la Chiesa deve subire delle trasformazioni nelle maniere adottate fino ad ora, per manifestare questo segno. Certo, le opere di assistenza, di carità misericordiosa, di quella carità che è molto tenera con tutti quelli che soffrono, queste opere rimangono; ma non sono più sufficienti. Quello di cui ora il mondo ha sete, ovunque l’amore dell’uomo debba esprimersi, quello che il mondo aspetta dalla Chiesa, è un atteggiamento che possa realmente preparare, in maniera efficace, la pace tra gli uomini, è una condanna degli inverosimili mezzi di distruzione, attualmente forgiati, è di contribuire a sviluppare la giustizia sociale, è che ci sia nella cristianità una più grande attenzione, più diffusa nei confronti della condizione dei poveri ovunque essi siano.
Vi è infine un ultimo segno che ci si aspetta dalla Chiesa: è quello della trascendenza di Dio, il segno della preghiera, del sacro, il segno di Colui nel quale essa crede. Di fronte allo spirito materialista contemporaneo, abituato a un nuovo stile, marcato dall’uso delle tecniche, la Chiesa sembra un poco inadatta in alcuni suoi modi di espressione. Qui non si tratta solamente della liturgia, ma della vita di preghiera della Chiesa, nelle anime tanto quanto nei segni esteriori (paramenti liturgici, architettura delle chiese, ecc.). I valori trascendenti della vita divina della Chiesa, che si esprimono più profondamente nella sua vita contemplativa, debbono coesistere con una totale presenza agli uomini del nostro tempo e una vera comprensione dei loro bisogni. Ciò non è contraddittorio, perché la contrapposizione tra la trascendenza e la presenza della Chiesa a questo mondo si risolve in valori interiori. La soluzione si trova nelle parole del Cristo: “Voi non siete del mondo, ma vi lascio nel mondo…Voi siete nel mondo senza essere del mondo…”
Non credo di aver mai preso l’iniziativa.
Terminata la fondazione della Fraternità di El Abiodh, ero convinto che avrei passato tutta la vita in questo angolo di deserto tra gli Ouled Sidi Cheikh ai quali ero profonda mente legato e dove pensavo di morire un giorno.
La Provvidenza, come sapete, ha disposto altrimenti. Ma quello che, forse, non conoscete sono le condizioni nelle quali si è effettuata l’estensione delle fraternità fuori di El Abiodh poi dell’Africa del Nord, e in seguito la mia partecipazione alle differenti fondazioni degli altri gruppi o istituti secolari, fondazioni che si sono succedute, in particolare durante questi ultimi venti anni. Come ho già avuto occasione di dirvi non credo di aver mai preso l’iniziativa; sono stato ogni volta come sollecitato dalla Provvidenza e consigliato dalla gerarchia della Chiesa, in maniera tale che non potevo dubitare di dove fosse il mio dovere. A causa del mio temperamento — e, più profondamente, spero a causa della mia vocazione — desideravo vivere nella solitudine del deserto, solo con il Signore. Ebbene, è proprio questo desiderio di essere fedele alla mia vocazione che mi ha condotto, già da qualche tempo a farmi una domanda e a prendere oggi una decisione maturata da vari mesi. Credo sia arrivato il momento di dimettermi dall’incarico di priore per essere più completamente fedele alle mie responsabilità di fondatore e per il miglior bene della Fraternità dei Piccoli Fratelli di Gesù, supplicandovi di comprendere bene i motivi di questo passo e di astenervi dal domandarmi di ripensarci. Se spettava a me prendere l’iniziativa di questa decisione, spetta a tutti voi ratificarla in un clima di affezione fraterna e di reciproca fiducia. Vi ho parlato all’inizio di questa lettera della fedeltà che ognuno deve avere alla sua vocazione. Per me, questa fedeltà consiste nell’accettare, con tutte le sue conseguenze, il compito di fondare le Fraternità dei Piccoli Fratelli e delle Piccole Sorelle del Vangelo. Non potendo sottrarmi a questo compito, debbo, dunque, prendere i mezzi per consacrarmici come si deve.
Nel momento in cui i Piccoli Fratelli e le Piccole Sorelle di Gesù riflettono sui trenta o vent’anni di esperienza della loro vita religiosa e prendono più chiara coscienza di ciò che è la loro propria forma di vita contemplativa al seguito di Gesù a Nazareth, nel momento in cui le Fraternità del Vangelo scoprono a loro volta la loro vita apostolica ‘al seguito dell’operaio evangelico’, è indispensabile non dimenticare che queste forme di vita per fratel Carlo erano in primo luogo semplicemente la conseguenza esterna di un amore immenso, appassionato, senza compromessi per la persona di Gesù….Oserò dire che non dobbiamo cercare nella vita di fratel Charles nient’altro che questa lezione e questa sorgente di amore per Gesù? Per il resto, per quanto riguarda questo o quel modo di realizzare la vita di Nazareth o di seguire Gesù nella sua vita di operaio evangelico, non credo che fr. Charles abbia una missione ben definita. Tutto non è forse rimasto nella sua vita solitaria allo stadio di intuizione incompiuta, di desideri successivi e di realizzazioni incerte? Questo non mette forse in rilievo il vigore instancabile e la purezza del suo amore per Gesù che avanza e cresce senza mai potersi riposare in una determinata realizzazione? Voler cercare nella vita di fr. Charles qualcos’altro dall’amore di Gesù e dalla fedeltà ad alcune grandi intuizioni è, forse esporsi a delle discussioni inutili e distrarsi dall’essenziale del suo messaggio. Che il Signore ci illumini!
Nelle vostre lettere [ricevute in occasione dell’80° compleanno N.d.R.] avete voluto esprimermi dei sentimenti di gratitudine e di ringraziamento per quello che è stata la mia vita al servizio delle Fraternità. Quanto a me non posso che ringraziare il Signore di avermi chiamato, come molti fra di voi a costruire nella Chiesa questo edificio spirituale che costituisce l’insieme delle diverse Fraternità, edificio che è basato su fratel Charles di Gesù sulla sua vita e la sua morte. Non sono niente in tutto questo e non posso far altro che provare una specie di meraviglia per il ruolo che la Provvidenza a voluto svolgessi, senza che potessi prevederlo. E in tutto questo io non conto niente. Ho ricevuto dall’opera di Dio molto di più di quanto gli abbia portato. Ho molti difetti e anche molte colpe ed errori di cui rimproverarmi: lo riconosco. Però non credo di aver avuto seriamente la tentazione di attribuirmi quello che ho potuto fare di utile nell’edificazione delle diverse fondazioni. Al contrario, spesso ho la coscienza acuta di ciò che non ho saputo fare bene. È una evidenza che si impone alla mia anima con una pacifica chiarezza. Pacifica, si, perché avendo fatto tutto quello che potevo, il Signore doveva aspettarselo avendo scelto me come strumento.
È molto difficile esprimere i sentimenti che si provano in occasione di una tale partenza, quella dell’ultimo superstite della prima comunità di El Abiodh nel 1933…Non provo mai meraviglia per la morte di un fratello, perché è proprio in vista di quella Ora che siamo entrati in Fraternità. Alla mia età questa verità diviene ogni anno più evidente. È alla luce di questa ora, nevvero, che dobbiamo valutare gli avvenimenti di questo mondo temporale ed imparare a rispettare in ogni essere umano quel germe di eternità che dobbiamo venerare come un irraggiamento della Gloria del Verbo Incarnato e di contribuire a rendere presente alla coscienza di quelli che il Signore ci confida, in una maniera o l’altra, affinché sia per questi uomini sorgente di forza, di cose della vita presente e delle sue prove, di dimenticare che Gesù è venuto per questo: “Dio, in effetti, ha tanto amato il mondo che ha donato suo Figlio, il suo Unico, perché ogni uomo che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna.”
Meditazioni di René Voillaume
Sulle orme di Gesù, seguendo fr. Charles
Gesù.
O Gesù, vorrei scrivere su di te. Come e perché affrontare questo compito impossibile. Chi mi autorizza a parlare di te ai fratelli e alle sorelle. So molto bene che nessuno può conoscerti senza la rivelazione del Padre. Ce lo hai tu stesso affermato: “Nessuno conosce il Padre all’infuori del Figlio e nessuno conosce il Figlio all’infuori del Padre e colui al quale Egli lo avrà rivelato”. Lo so, sei il mio Signore e il mio Dio. Tra poco avrò 90 anni, e non hai mai smesso, durante tutta la mia vita, quanto lontano possano rimontare i miei ricordi, di manifestarti alla mia anima. Ti conosco così poco, e le illuminazioni che ho ricevuto sull’insondabile mistero di tutto ciò che sei essendo il Figlio eternamente generato dal Padre, questa conoscenza, non mi è dato né esprimerla né comunicarla. Ti adoro, e ti amo. (testo inedito, 1995)
È sempre a Gesù che bisogna tornare: Egli è tutto per noi: vita, risurrezione, via verso il Padre, porta verso i pascoli, Buon Pastore, medico delle anime e dei corpi. Egli è Colui che ci rivela Dio sotto sembianze umane: chi ha visto Lui ha visto Dio. Nella Sua anima dobbiamo imparare a leggere ciò che dobbiamo fare per andare a Dio. Non serve a nulla il ragionare in questo campo. Ritornate senza stancarvi verso Gesù vivente, vostro amico, vostro fratello, vostro Signore, vostro Dio.
Non lasciatevi distrarre da altre considerazioni sulle diverse spiritualità. Guardandolo imparerete a diventare semplici come bambini, perché non ragionerete più.
Si tratta di andare a Lui per essere trasformati in Lui.
Vivere con Gesù e per lui deve diventare per te una vita a due così concreta e reale nella fede, quanto la vita che conduci in mezzo agli uomini. Eppure, questa vita con Gesù è diversa da quella con gli uomini, si svolge infatti nell’oscurità e l’austerità della fede. Devi esercitarti a pensare, vivere e agire tenendo conto di queste realtà: Gesù risuscitato, nella pienezza della vita e della gioia, e puoi, subito, avere dei rapporti profondi e costanti con lui.
Gesù ti conosce in ogni momento, sia nella tua vita interiore che esteriore, e ti vuole a lui.
Gesù è sempre in ascolto e sente le tue parole quando gli parli. Ti è presente in varie maniere che devi conoscere bene.
Tramite i sacramenti, specialmente l’Eucaristia e la penitenza, puoi entrare in contatto con l’umanità di Gesù e ricevervi una influenza divina che guarisca il male che è nella tua anima e nel tuo corpo, e che accresca in te la vita divina.
Gesù ha un progetto preciso per te, e aspetta che tu lo realizzi con i tuoi sforzi conformando la tua volontà alla sua. In ogni minuto, dipende Solo da te che si stabilisca una collaborazione con Gesù per una azione invisibile ma reale sugli uomini.
L’incontro con Gesù alla morte è una eventualità sicura e vicina: devi pensarci, desiderarla, rallegrartene in anticipo e prepararti con il distacco a questo passaggio doloroso.
La visione di Dio, l’eterna gioia di essere con Gesù e di agire con lui sul mondo e nel cuore degli uomini, senza altro limite nel tempo e nello spazio che quello della sua volontà: ecco il fine della tua vita, ecco ciò che avverrà molto presto, e che deve essere da ora il motivo della tua gioia, della tua forza d’animo e della tua speranza. (Regola di vita dei Piccoli Fratelli di Gesù).
Last Updated: 19 Dicembre 2018 by Redazione Leave a Comment
Primo dicembre – dal 1916 ad oggi
Da Luigi Rosadoni “Charles de Foucauld, fratello universale.” Piero Gribaudi Ed. p. 355-357
Un amico scriverà: «La vita nascosta nella casa di Nazareth, quella grazia umile e modesta, alla portata di tutti, ha condotto lentamente, dolcemente e sicuramente il padre de Foucauld all’eroismo finale …»
«È morto per tutti», come un chicco di grano che muore per sfamare gli uomini d’ogni razza, faccia a faccia al Cristo eucaristico, vivendo lo spirito di Nazareth fino all’estrema conseguenza dei martirio. «Pensa che devi morire martire, spogliato di tutto, disteso a terra, nudo, irriconoscibile», si era detto. E ancora: «Vivere come se io dovessi morire oggi martire».
Si può affermare che da quando era stato la prima volta in Terra Santa e aveva scoperto il mistero dei Calvario, ha camminato a ritroso per tutta la vita sotto la lunga ombra della croce, diretto là verso il punto in cui essa è conficcata a terra, per salirci e distendervisi col Cristo. Ciò è avvenuto oggi, primo dicembre 1916: giorno del suo martirio e del suo trionfo.
Aveva scritto: «Se i discepoli di Gesù potessero scoraggiarsi, quale causa di scoraggiamento avrebbero avuto i cristiani di Roma, la sera del martirio di san Pietro e di san Paolo!
«Ho pensato spesso a quella sera: che tristezza, e come tutto sarebbe sembrato finito, se nei cuori non ci fosse stata la fede che c’era!
«Ci saranno sempre le lotte e sempre il trionfo reale della croce nella disfatta apparente».
«La disfatta apparente»: sotto all’espressione c’è, integrale, l’ideale di Nazareth, che Fratel Carlo consegna a noi con la sua morte «per tutti».
Disfatta apparente è I ‘Incarnazione del Dio della Gloria, e lo è la sua umiliazione operaia nella bottega di Giuseppe, come lo è la predicazione incompresa persino dai discepoli, e, soprattutto, il suo annientamento sulla croce. Ma soltanto la salita sulla croce permette al Cristo ii ritorno alla Gloria del Padre: non più da solo, bensì con la moltitudine dei fratelli riscattati dal suo Sangue. Sulla croce, dunque, c’è già il germe della resurrezione. L’appuntamento con la beatitudine riservata agli eletti è a quel crocicchio di dolore, non altrove. La missione di ciascun credente e dell’intera Chiesa è di presentarsi al mondo in questo stato di «disfatta apparente» – cioè di rinunzia alle varie forme del prestigio e della potenza umana -, affinché il mondo trovi non già la fame di possesso bensì l’amore di servizio.
Questa visione evangelica, totalmente scevra dal nefasto trionfalismo condannato poi dal Vaticano II, Fratel Carlo l’ha esposta in termini ineguagliabili:
«La via regale della Croce: è la sola per gli eletti, la sola per la Chiesa, la sola per qualsiasi fedele; è la legge sin alla fine del mondo: la Chiesa e le anime, spose dello Sposo crocifisso, dovranno condividere le sue spine e portare la croce insieme a lui. La legge dell’amore vuole che la sposa condivida la sorte dello Sposo».
Come dimenticare che, insieme all’Evangelo, anche il mondo ci chiede la fedeltà a questa legge, probabilmente perché ne conserva un’inconfessata nostalgia? Esso sta a scrutare l’ora in cui l’età costantiniana – caratterizzata dal connubio del pastorale con la spada e col denaro – sarà sepolta definitivamente dal ritorno all’epoca del martirio: martirio interiore nella povertà e nell’assunzione d’ogni pena e d’ogni faticosa speranza della terra, martirio del sangue se necessario per non tradire la vocazione evangelica. E in quest’attesa il mondo ci ripete, forse un po’ enfaticamente, ma certo sinceramente: «Se volete assomigliare a Gesù Cristo, siate martiri e non carnefici». [Voltaire Trattato sulla tolleranza, Ed. Riuniti, Roma 1966 p. 99]