"Chiamati ad essere fratelli " (Marc Hayet priore 1996-2008)
11/01/2025
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CHIAMATI AD ESSERE FRATELLI
Lettera di Marc Hayet
Il giovedì 1 marzo 1947 quattro giovani traslocano in un piccolo appartamento di Aix-en-Provence. Si mettono a cercare lavoro e il lunedì successivo sono assunti come operai, due in cantieri edili, uno in falegnameria, il quarto in una ditta di vernici. L’ evento è banale e passerà totalmente inosservato, ad eccezione, forse, dei compagni di lavoro, i quali vengono a sapere ben presto che si tratta di religiosi: arrivano da un piccolo monastero del deserto algerino e, se vengono a lavorare, non a caso in questo quartiere, non lo fanno per un tirocinio provvisorio. Il loro intendimento è ormai quello di vivere la loro vita religiosa sotto questa nuova forma.
La loro comunità si chiama la "Fraternità dei Piccoli Fratelli di Gesú"; è cominciata 14 anni prima, l’8 settembre 1933, nella basilica del Sacro Cuore di Montmartre, quando cinque fratelli, preti, avevano ricevuto l’abito monastico dalle mani del Card. Verdier, Arcivescovo di Parigi. Sull’abito si vedeva il cuore rosso sormontato da una croce, distintivo che cominciava già ad essere conosciuto come quello di Charles de Foucauld. Proprio ispirandosi a un progetto di Regolamento scritto da lui quei fratelli partivano la sera stessa per iniziare nel Sahara una vita da loro stessi definita come monastica e missionaria.
Uno dei quattro fratelli che si stabiliscono ad Aix in quel 1 maggio 1947, è René Voillaume. Fin dagli inizi, verso il 1929, quando stava [13/14] ancora maturando il progetto di fondazione, era stato scelto come responsabile: sarà lui a sostenere e animare la comunità durante i primi 33 anni. Così conclude una lettera alla comunità dei fratelli il giorno dopo il loro arrivo ad Aix,: "Finisco in fretta, nella gioia piena della giovane fraternità operaia: è semplice, bellissimo e aperto a un futuro che Gesú dirigerà." Anche se il progetto è stato lasciato maturare a lungo ed è sostenuto dall’insieme dei fratelli, tutto è ancora da mettere in cantiere e si dovranno aprire strade nuove. "Sempre più il nostro ruolo di contemplativi, di persone in preghiera, mi appare fino all’evidenza come nostra missione specifica nel mondo attuale" scrive René Voillaume qualche settimana dopo… "ma le modalità concrete della realizzazione e gli effettivi problemi posti dalla vita devono per l’appunto essere chiaramente definiti: ritmo di vita, separazione, natura dei contatti. Su questi punti l’esperienza si fa lentamente e io non intendo affrettarla. Non bisogna anticipare nulla, ma lasciare che la vita stessa ponga i problemi."
Tra i fratelli che sono con lui, due hanno appena finito il noviziato. Si trovano proiettati nell’avventura di una vita religiosa dove tutto è da inventare. Il loro responsabile di formazione è perfettamente lucido sui rischi che questo comporta e ne scrive a René Voillaume: "Domani, dunque, i nostri fratelli partono… Ho insistito ancora questa sera dicendo loro che partono da probandi… Che il loro sia un apprendistato attraverso la vita… Per questo vi prego di non organizzare una fondazione, ma di cercare fortemente il bene di entrambi. Vi chiedo perdono per ciò che dico. Il fatto è che ho paura che voi siate più attento all’organizzazione-tipo di una fraternità operaia… che al probandato umano e contemplativo di due fratelli in carne ed ossa. Penso che tutto il resto verrà di conseguenza e in soprappiù… Partire dalla persona umana e fondare solo in funzione di questa."
Si possono notare di sfuggita, espresse fin dai primi giorni, due regole d’oro che guideranno – talvolta in tensione e come una sfida – il cammino della Fraternità: "lasciare che la vita ponga i problemi" e "partire dalla persona umana e fondare solo in funzione di questa."
La "giovane fraternità operaia" sarà ben presto seguita da altre fondazioni, in Francia, in Africa del Nord e in Medio Oriente, poi in Africa e in America del Sud. Ci sono [14/15] già 13 fraternità alla fine del 1950, l’anno in cui le Éditions du Cerf pubblicano, a firma di René Voillaume, il libro dal titolo di Au cœur des masses. Questo libro raccoglie le principali lettere e conferenze che il priore aveva indirizzato ai fratelli tra il 1946 e il 1950 dove delinea la vocazione della Fraternità secondo i nuovi tratti che sta assumendo, difende con forza la possibilità di una vita religiosa e persino di una vita contemplativa vissuta nel mondo, nelle condizioni di lavoro e di abitazione proprie dei poveri; e traccia prospettive in previsione dell’inserimento negli ambienti più diversi e di una condivisione della vita dei poveri di qualunque parte del mondo.
Se questo libro, così come i quattro volumi di Lettere alle fraternità pubblicati nel 1960, 1966 e 1974, hanno avuto un successo di grande portata è perché in quel momento c’era, in particolare nella Chiesa di Francia, una straordinaria corrente missionaria innescata fra l’altro, dalla pubblicazione del libro dell’abbé Godin, France pays de mission? In tutto quel movimento la Fraternità apportava il suo specifico contributo. Anche lei si è arricchita di molti scambi: con gli esponenti a tempo pieno della JOC e con i responsabili di comunità e movimenti impegnati nel mondo operaio che cominciavano allora a decollare in pari tempo (Mission de France, Mission de Paris, Mission de la mer, Fils de la Charité, Prado, Mission Ouvrière Saints Pierre et Paul, preti operai, ecc.). L’inserimento in altri paesi e continenti allarga gli orizzonti e fa incontrare persone che, vivendo in altri contesti, pongono interrogativi ai fratelli e li aiutano ad approfondire le intuizioni d’origine. Nello stesso periodo le Piccole Sorelle di Gesú, che hanno cominciato a lavorare in fabbrica alcuni mesi prima dei fratelli, fondano progressivamente fraternità in tutti i continenti. Petite Sœur Magdeleine, la loro fondatrice, e René Voillaume lavoreranno di comune accordo e le due Fraternità saranno spesso chiamate a sostenersi a vicenda.
Più di cinquant’anni ci separano oggi da quell’inizio "semplice, bellissimo e aperto a un avvenire che Gesú dirigerà." È possibile raccogliere un po’ della ricchezza di vita e di ricerca che ha animato i fratelli in questi anni e farne una specie di bilancio? La sfida di una vita fraterna contemplativa direttamente nel mondo era una scommessa temeraria? Le pagine che seguono vengono da tutte le parti del mondo e sono, per la [15/16] maggior parte, scritte fra il 1960 e il 2000. Squarci di vita vissuta, riflessioni sugli avvenimenti, esse presentano, raccolte a caldo, le reazioni dei fratelli che scambiano fra loro come cerchino di essere fedeli alla missione ricevuta e come tentino di rispondere ai problemi che la vita concreta non manca mai di porre. Scopriamo che in fondo i testi parlano soprattutto della vita del mondo e dei piccoli di questo mondo; e anche, direttamente o in trasparenza, di Gesú di Nazaret, di cui ogni fratello potrebbe dire, come Charles de Foucauld: "Ho perduto il cuore per questo Gesú di Nazaret, crocifisso millenovecento anni fa, e passo la mia vita a cercare di imitarlo per quanto è possibile alla mia debolezza."
Si potrebbe dire che la nostra Fraternità sia nata da una meraviglia, quella di Charles de Foucauld all’atto della conversione: l’incontro con Gesú lo ha sconvolto e gli ha preso il cuore per sempre. Una prima luce lo aveva toccato il giorno stesso della sua conversione, a fine ottobre 1886. Mentre cercava di dare un senso alla propria vita, vuol prendere lezioni di religione e va a cercare un prete, l’abbé Huvelin. Ma questi non si mette a proporgli piste di riflessione. Quando Charles esce dal suo confessionale e riceve la comunione è già stato afferrato da Qualcuno: Gesù, Dio che lo ama così com’è, che l’aspettava e che si dona a lui perché di questo possa vivere! Due anni dopo, un pellegrinaggio in Palestina diviene per lui una nuova illuminazione. Mentre pone concretamente i suoi passi su quelli di Gesú "camminando per le strade di Nazaret calpestate dai piedi di Nostro Signore, povero artigiano perduto nell’abiezione e nell’oscurità", come dice lui, si lascia raggiungere da ciò che scopre: quando Dio ha voluto manifestarci il suo amore e farci condividere la sua vita, è divenuto un semplice [16-17] ordinario artigiano di un villaggio sperduto! Charles è sedotto da questa "esistenza umile e oscura del divino operaio di Nazaret". Intravede, indovina, come dirà più tardi, che in questo c’è per lui un percorso da seguire. "Vivere Nazaret" sarà ormai la preoccupazione e la ricerca di tutta la sua vita. Non sarà una ricerca facile, lo sappiamo bene! Alcuni punti sembrano chiari sin dall’inizio. Dato che ama Gesú, vuole cercare il suo volto, vivere alla sua presenza, seguirlo e imitarlo specialmente nella sua povertà di Nazaret: "Non voglio attraversare la vita in prima classe quando colui che amo l’ha attraversata nell’ultima"; e dato che Gesú è venuto per darci la vita, Charles fa sua la preoccupazione della "salvezza delle anime": "Mio Dio, fate che tutti gli uomini vadano in cielo!" sarà, in una forma o in un’altra, la preghiera di tutta la sua vita.
Nei primi anni che seguono la sua conversione, le differenti scelte che metterà in atto per vivere Nazaret andranno tutte nel senso di una separazione dal mondo: per seguire Gesú più da vicino, per stare con lui, bisogna sparire, allontanarsi dal mondo, offrire in modo particolare a Dio "il sacrificio più grande" separandosi radicalmente dai propri cari. "Che bella cosa una buona clausura che ci imprigiona col nostro divino Sposo!… Sono in grande solitudine qui…, molto più silenzioso che alla Trappa…; ma, rispetto a me, voi avete il vantaggio di essere come in un pozzo con Gesú" scrive da Nazaret al padre Jérôme, l’amico rimasto alla Trappa. Nella Chiesa questo è il cammino sicuro e tradizionale della vita contemplativa: Charles vi si inoltra con tutta la propria generosità e saprà trarne molto profitto.
Tuttavia, in ascolto com’è di ciò che lo Spirito gli manifesta, a poco a poco è indotto a intraprendere un altro percorso: per essere con Gesú, cercare il suo volto e farsi carico dell’umanità, non deve più separarsi dagli uomini, ma avvicinarsi a loro. Questo lo condurrà fino al Sahara, non per cercarvi la solitudine, come spesso si pensa, ma per raggiungere le popolazioni che ci vivono e che lui ritiene essere "le più abbandonate." Scopre a poco a poco che per lui si tratta di amare Gesú e [17/18] coloro per i quali egli ha dato la vita, non arrivando fino a loro attraverso la preghiera silenziosa di un chiostro, ma amandoli concretamente in una vita condivisa. Non c’è un rischio in tutto questo e cioè di perdere la pace interiore e il legame privilegiato con Gesú? nel corso di un viaggio che fa nel 1904 nell’ Hoggar sud-algerino si colgono con chiarezza le sue esitazioni e le linee orientative che prendono forma. Per riuscire a incontrare popolazioni ancora più lontane, i Tuareg, esamina la possibilità di stabilirsi in quella regione ed ha un momento di incertezza fra due località: una, sottolinea, è "vicina agli uomini ed esposta a molti contatti", l’altra "ha il vantaggio di essere lontana dagli uomini e dal rumore e di indurre alla solitudine con Dio". Annota anche la risposta che gli nasce in cuore durante la preghiera: " Fermati nel primo luogo… dove hai insieme la perfezione dell’imitare me e quella della mia carità: quanto al raccoglimento, ciò che deve raccoglierti in me, interiormente, è l’amore e non l’allontanamento dai miei figli: vedi me in loro e, come me a Nazaret, vivi vicino a loro, perduto in Dio." Durante gli anni che gli rimangono da vivere, procederà sempre più avanti in questo cammino di vicinanza. Se ne era reso conto fin dal suo arrivo in Algeria: "Voglio abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani ed ebrei e idolatri a considerarmi come loro fratello – il fratello universale… cominciano a chiamare la casa "la fraternità" e questo mi fa piacere".
La nostra Fraternità ha percorso in certo qual modo lo stesso tragitto: volendo seguire Charles de Foucauld in un’esistenza donata a Dio per la salvezza del mondo, i primi fratelli hanno scelto, come lui, di andare verso coloro che erano lontani, con un’evidente preoccupazione, fin dagli inizi, di adattarsi alla lingua e alla cultura del paese. Ma si trattava di una vita monastica: le primissime Costituzioni lo esprimono con una formula che sembra paradossale: i Piccoli Fratelli "si propongono di essere missionari usando come principale mezzo di apostolato la vita claustrale e silenziosa, la preghiera e il sacrificio, in unione con Nostro Signore in particolare nella sua Vita Eucaristica, con l’esclusione di ogni ministero attivo." Una migliore conoscenza dei testi e della vita di Charles de Foucauld e tutto il movimento di Chiesa sopra ricordato, li hanno [18/19] a poco a poco condotti su un’altra strada: quella di farsi prossimi, in una condivisione della vita realmente concreta di "coloro che sono senza nome e non contano niente nel mondo" secondo un’espressione che ci diventerà familiare. Questo libro vorrebbe far partecipare la ricerca vissuta dai fratelli nel corso degli anni. E anche la loro scoperta: che questa prossimità è un autentico cammino di vita contemplativa, anche se il suo tracciato è nuovo, ancora poco frequentato e per questo appena visibile talvolta, tanto da far temere di perdersi…
Nel momento in cui la Chiesa riconosce ufficialmente il carisma della Fraternità, il 13 giugno 1968, il decreto di Roma presenta così la nostra vocazione: la Fraternità, "sull’esempio umile e nascosto di Nazaret, trova il fine e il suo compimento in una vita contemplativa che le è propria, quella dell’adorazione di Cristo nell’ Eucarestia, la pratica della povertà evangelica, il lavoro manuale e la partecipazione effettiva alla condizione sociale di coloro che non hanno un nome e non contano niente."
Bisognerebbe sviluppare ognuna di queste espressioni: provengono tutte dalle Costituzioni che Roma approvava contestualmente. Soffermiamoci su questa frase: "una vita contemplativa che le è propria". Venti anni dopo la fondazione della prima fraternità operaia, mentre la Fraternità è già presente in una quarantina di paesi, la Chiesa riconosce, accanto al cammino abituale di una vita di silenzio e di ritiro eremitica o cenobitica, un’altra strada, quella dell’inserimento effettivo nella condizione sociale dei poveri! Non è questa una pura follia? Come si può trovare tra il rumore dei quartieri popolari e il peso di un lavoro manuale un percorso per essere profondamente uniti a Gesú e partecipare alla sua opera di vita? La risposta è semplice: è possibile perché questo è il percorso che Gesú ha scelto per se stesso! Come "è riuscito a farcela" Gesú per salvare il mondo? La risposta è chiara e ce la dà la Bibbia: si è fatto fratello!
Se c’è un tema che attraversa tutta la Bibbia è proprio quello della salvezza, o più esattamente della redenzione. Ora, la parola "redentore" per l’uomo biblico ha un senso molto preciso: quando la vita di qualcuno è radicalmente minacciata (perché non ha discendenza per perpetuare il proprio nome [19-20] oppure perché, troppo povero, ha dovuto vendere la propria terra o vendere se stesso), il redentore è il parente più prossimo che ha l’obbligo di intervenire per aiutare e riscattare: la consanguineità crea l’obbligo. Ed ecco che un giorno il profeta Isaia arriva con un messaggio straordinario da parte del Signore: "Non temere Giacobbe, povero vermicello, il tuo redentore (cioè colui che deve comportarsi come il tuo parente più prossimo per salvarti la vita) è lo stesso Dio d’Israele!" (Is. 41,14) Nessuna meraviglia che il Nuovo Testamento abbia utilizzato l’antico nome di "redentore" per parlare di Gesú. Dio come il nostro parente più prossimo: ecco che cosa è stato Gesú di Nazaret! L’ Epistola agli Ebrei impiega un altro nome per dirlo, un nome che ci è particolarmente caro, quello di "fratello": lui, Gesú, "l’iniziatore della nostra salvezza", "doveva in tutto farsi simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso non meno che accreditato presso Dio per cancellare i peccati del popolo; santificatore e santificati hanno la stessa origine, per questo non si vergogna di chiamarli fratelli." (Eb, 2,10-18 ). La salvezza portata da Gesú non è l’aiuto di un soccorritore che, per ipotesi, interviene professionalmente dal di fuori per sollevare persone a lui magari indifferenti, è una salvezza generata da una solidarietà profonda. Il Figlio, sentendo per noi lo stesso desiderio di vita del Padre, si è fatto fratello, sperimentando dall’interno la nostra ricerca di vita. Dato che era pienamente uno con il Padre e pienamente uno con noi, ha potuto comunicarci la vita che riceveva dal Padre e ha potuto nello stesso tempo innestare l’umanità nel cuore stesso di Dio. I veri intercessori sono presentati sempre in questo modo nella Bibbia: profondamente radicati in Dio e profondamente radicati nel loro popolo, non ‘tra’ i due, ma "uno" con ciascuno dei due.
Tutto il Vangelo ce lo mostra: Gesú è divenuto fratello, vicino. Vicino alla gente semplice prima di tutto, perché lui stesso è un uomo del popolo, con la maniera di sentire e di parlare della gente del popolo: stesse immagini, stesso linguaggio e, senza dubbio, stessa distanza rispetto alle buone maniere e agli automatismi dei potenti. Ha uno sguardo profondo sulle cose e sul mondo, ma è uno sguardo che "viene dal basso"… Questo modo di essere si è affermato in lui durante gli anni della giovinezza a Nazaret, quando "cresceva in sapienza, statura e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini". A tal punto è [ 20/21] membro di questa comunità di paese che tutti si meraviglieranno quando comincerà a predicare: "Non è forse il carpentiere, il figlio di Maria? Da dove gli arrivano questa sapienza e i miracoli che fa?" (Mc. 6, 3)."Gesú di Nazaret" è il suo nome proprio, fino all’iscrizione della croce; ma è un nome che lascia intravedere uno dei volti di Dio. Quando Dio vuol esprimere l’ampiezza di ciò che è, lo fa non come un prete nel Tempio, né come un dottore sulla cattedra – questi ne parlerebbero in altro modo – ma come un uomo del popolo emarginato di Galilea. Ciò produce la stupefacente freschezza in cui coloro che sono "in basso" sono portati a ritrovarsi spontaneamente e quella straordinaria familiarità con l’Abba, quella profondità che fanno sì che tutti siano sconcertati e posti davanti a un mistero.
Senza dubbio, questa solidarietà di nascita con le persone semplici predisponeva Gesú a essere aperto alla miseria degli esclusi del suo tempo. Di fatto lo vediamo in compagnia dei peccatori, dei malati, degli stranieri, degli eretici e dei pagani: se qualcuno ha un atteggiamento di disprezzo o di rifiuto, rischia molto di trovare Gesú che si pone di traverso sul suo cammino! Ma il Vangelo ci dice molto di più. Se Gesú si erge contro tutto ciò che minaccia la fraternità tra gli uomini, lo fa per una ragione fondamentale: "Voi siete tutti fratelli; non avete che un solo Padre. Mio Padre non vuole che si perda uno solo di questi piccoli che sono miei fratelli." Il Regno in cui il Padre vuole raccogliere l’umanità è un Regno di figli e figlie, di fratelli e sorelle. Con una straordinaria libertà, Gesú mette sottosopra le rigidità di tutti i tipi, comprese quelle dell’interpretazione della Legge. Lo fa perché porta sulle persone uno sguardo diverso e profondo, che viene dal cuore di Dio, uno sguardo che libera e dona la vita. Le persone non si ingannano: "accorrono verso di lui da ogni parte per ascoltarlo e farsi guarire." Il Vangelo ce lo fa notare: negli stessi gesti di guarigione attraverso i quali ristabilisce una vita piena Gesú "prende su di sé le nostre infermità e si carica delle nostre sofferenze" (Mt. 8, 17). Ma – bisogna metterlo in risalto, ancora una volta – ciò si traduce nel suo caso in atteggiamenti assai concreti e compromettenti. Egli accetta di essere incluso nel medesimo disprezzo di coloro dei quali si fa prossimo: "Ecco un mangione e un beone, un amico dei pubblicani e dei peccatori!" (Mt. 11,19); tocca il lebbroso e contrae [21/22] l’impurità rituale che lo obbliga a rimanere fuori dalle città per un certo tempo (Mc 1, 40-45); alla fine, se muore come (e per) tutti gli esseri umani, non muore di una morte qualsiasi, ma di quella dei condannati a morte, degli "irrecuperabili per la società" nell’ esclusione totale…
Ecco che cosa c’è nel cuore della vocazione della nostra Fraternità: fare nostro lo stesso cammino di Gesú. Non soltanto imitare Gesú a Nazaret, in una vita di lavoro e in una condizione sociale modesta, ma, cominciando da questa condivisione, divenire "salvatori con Gesú", cioè ricevere da Gesú uno sguardo nuovo sulla gente e sul mondo, il suo sguardo fraterno, illuminato dall’esperienza d’amore che viene dal cuore di Dio. È questo lo sguardo che dà vita al mondo. Gesú ci invita a partecipare al suo lavoro, prendendo la sua stessa strada (per quanto ci possa costare, come, del resto, è costato a lui: fino al dono totale, nella fedeltà al Padre e ai fratelli…)
Nell’ultimo Capitolo Generale, nel 1996, i fratelli hanno riflettuto di nuovo sulla loro vocazione all’interno del mondo, fra le situazioni spesso drammatiche in cui si trovano insieme ai popoli di cui condividono la vita. Ecco come hanno espresso le loro convinzioni:
"Osiamo dire ancora: quando mettiamo i nostri passi nei passi di Gesú di Nazaret, il mondo così com’è si fa luogo della nostra esperienza d’amore, lì noi facciamo l’esperienza di Dio, lì si costruisce il Regno, lì si gioca la nostra vita contemplativa. Il Contemplativo è Gesú nella sua relazione d’amore al Padre e agli altri, nella sua vita condivisa, "mangiata", offerta. Egli è il viso umano di Dio. Lui ci fa vedere il cammino. È Lui il "modello unico".
Avere lo sguardo di Gesú sulla vita, il mondo, l’intera storia umana.
Avere il cuore di Gesú per condividere gioie e speranze, sofferenze e miserie; ancora e sempre ritrovare lì la sua presenza nascosta, tante volte sfigurata ma in azione. [22/23]
Avere lo spirito di Gesú per vivere e agire in questo mondo segnato dalla violenza, ma anche santuario del Regno: Spirito che ci orienta verso il Padre e ci fa dire "Abba".
In questo mondo affaticato e sofferente ma in cui la vita freme in tutti i sensi, la contemplazione è possibile perché sappiamo bene che, insieme agli uomini e alle donne del nostro tempo, procediamo sotto lo sguardo misericordioso di Dio."
"Lasciare che la vita faccia emergere i problemi" diceva René Voillaume arrivando ad Aix-en-Provence. La prima sfida che si presentò ai fratelli fu senza dubbio quella di mantenere un cuore aperto alla preghiera in un ritmo completamente diverso da quello della fraternità monastica del deserto. Pur volendolo, era impossibile aggiungere così com’erano ai lunghi orari di lavoro dell’epoca le differenti forme di preghiera che li avevano sostenuti fino a quel momento. Bisognava di queste conservare la linfa, ma trovare canali nuovi. Questa ricerca è sempre attuale e ogni fratello vi si deve impegnare per conto suo; è tuttavia possibile isolare alcune linee di orientamento.
Da Charles de Foucauld la Fraternità aveva ricevuto il gusto di pregare con l’Eucarestia, celebrazione e lunga preghiera silenziosa vicino al Santissimo Sacramento. Anche se le forme hanno potuto modificarsi, l’esperienza dei fratelli nel corso degli anni ci ha mostrato che c’è come un’ "affinità naturale" tra questo sacramento e la nostra vocazione. Raggiungere il Signore nel dono che egli fa di se stesso perché "gli uomini abbiano la vita in abbondanza"; entrare nella sua intercessione perché "tutti siano uno" come fratelli sotto lo sguardo dell’unico Padre; benedire Dio per il pane e il vino, queste cose quotidiane, "frutti della terra e del lavoro degli uomini"; celebrare l’Alleanza nuova del Regno, i cui germogli spuntano già. Tutti questi atteggiamenti "eucaristici" acquistano un altro sapore quando l’esistenza condivisa ci ha fatto assaporare, poco o molto, i frutti di morte e di divisione della situazione imposta ai poveri; o ci ha fatto toccare con mano solidarietà e vita più forti della morte… La celebrazione è allora veramente legata alla vita. Sedersi con grande semplicità ai piedi di Gesú, per questa "preghiera della povera [24/25] gente", senza parole, carica di fatica e di speranza, sicuri che Lui è "con noi sino alla fine del mondo" e che "sa bene, lui, che cosa c’è nell’uomo". Per questa preghiera prolungata di un cuore in attesa, spoglio e semplicemente aperto all’azione di Dio, abbiamo trovato tra i santi del Carmelo, dei maestri che hanno segnato la Fraternità fin dalle origini.
Ma la vita di un fratello si identifica con molto tempo passato insieme ad altri, al lavoro, nel quartiere, in casa. Bisognava imparare a fare di tutto questo tempo un incontro con Dio, a riconoscere il suo Spirito all’opera, a guardare la gente e le situazioni con lo sguardo di Gesú. Non si è mai finito di imparare questo atteggiamento, ma è esperienza propria dei fratelli che ci sia davvero in questo un cammino di vita. "Spero di non farmi troppe illusioni, ma credo di poter dire che questo peso della vita condivisa non mi chiude a Dio e che al contrario esso è la porta che mi apre a lui. Sì, le confidenze degli amici o dei vicini, le grandi cose di cui sono capaci e che mi meravigliano, le ingiustizie che subiscono, la loro fatica di vivere e la loro debolezza, tutto ciò che "mi entra nella pelle", mi spinge a lottare, mette in moto cuore, testa e energia, tutto questo, nello stesso tempo, mi rimanda a Dio. Ciò che ogni incontro suscita e fa vibrare è una sorta di ondata di fondo, silenziosa e vigilante, come una piaga aperta, una specie di corda tesa. Credo di poter dire che attraverso tutto questo, nell’ impatto stesso con la realtà umana che mi circonda, c’è un vero incontro col Signore, una scoperta del volto di Dio che si forma in me a poco a poco. Il Dio della misericordia, il Dio che non si rassegna alla rottura dell’alleanza, per il quale nessuno scacco è mai definitivo; il Dio della pecorella smarrita e del figliuol prodigo; il Dio, inoltre, che non sopporta la gente "bene" e ciò che è elevato." Chiedete ai fratelli: vi diranno certamente che Teresa di Lisieux, con la sua attenzione fedele e coraggiosa ad amare in un contesto di semplici cose della vita è per loro una compagna su questo cammino.
Dato che gli orari di lavoro riempivano una buona parte della giornata e la presenza al quartiere imponeva di vivere "a porte aperte", i fratelli hanno dovuto anche inventarsi dei ritmi [24/25] di raccoglimento, come Gesú che conduceva i suoi discepoli in luoghi isolati perché si riposassero e potessero stare soli con lui: mezza giornata di silenzio ogni settimana, un week-end al mese; soprattutto una settimana di ritiro ogni anno e, quando diventa possibile, dopo anni di vita in fraternità, diversi mesi o un anno di tempo sabbatico che chiamiamo "anno di deserto" (ma fermarsi per diversi mesi è spesso difficile oggi, a causa della disoccupazione…). Forse era naturale che, con una vita vissuta in grande prossimità con le persone, ci fosse normalmente gradito passare quei periodi di tempo nella solitudine degli eremi. Non certo per fuggire vicini e amici, cosa comunque impossibile perché essi abitano il nostro cuore.
Dire che i nostri vicini e amici "abitano il nostro cuore" non è solo una bella formula. È la realtà della quale facciamo ogni giorno esperienza. Non era una sfida di poco conto stabilire comunità di fratelli nella "partecipazione reale alla condizione sociale di chi non ha né nome né influenza nel mondo"! Ma oggi questo è l’elemento della nostra vocazione di cui parliamo come di un tesoro di famiglia. Nonostante le difficoltà incontrate, sentiamo che la nostra vita è lì, in quella condivisione; soffriamo di non poter andare più lontano, e c’è una reale tenerezza verso coloro con cui viviamo.
La missione ricevuta dalla Chiesa ci ha molto aiutato in questo: i Piccoli Fratelli, dicono le nostre Costituzioni, " stanno in mezzo agli uomini non per diventarne i pastori o le guide, ma semplicemente per essere loro fratelli… Questa comunità di vita è la loro testimonianza propria, la loro partecipazione alla missione della Chiesa." "Essere fratello", per noi, è una vera missione e ci richiede impegno e vigilanza; ma aver questo come unico compito non è proprio secondo le convenzioni per dei religiosi. Per lo più, soprattutto se vivono in contesti non cristiani, i religiosi hanno come scopo e come compito, attraverso i differenti servizi che espletano, l’annuncio del Vangelo e il servizio delle comunità cristiane, siano queste nascenti o già consolidate. A noi la Chiesa riconosce un’altra vocazione, perché lei sa che nell’essere "semplicemente fratelli" qualcosa del Regno è pure coinvolto, si trasmette e germoglia. Non "qualcosa" del Regno, il Regno stesso: quando tra gli [25/26] uomini e le donne della terra si radica l’essere fratelli e sorelle, si compie il desiderio profondo di Dio: tessendo relazioni fraterne intessiamo relazioni di veri figli e figlie del Padre. Le due cose vanno sempre insieme (come lo esprime Mt 25,31 ss: i benedetti dal Padre, quelli ai quali è affidato il Regno, sono quelli che sono stati vicini agli altri nel bisogno).
Non essendo dunque incaricati né di guidare né di insegnare, siamo resi liberi per l’ascolto gratuito, per la scoperta insieme, e per la scoperta nella meraviglia che lo Spirito opera molto prima di noi e in tanti luoghi in cui forse pensavamo che saremmo andati noi a portarlo! Il problema è di rimanere molto attenti all’umano perché Dio "è nascosto nel mondo come un fuoco". A [ogni] svolta del cammino, mentre condividiamo le domande di uomini e donne, le loro ricerche e il loro brancolare, noi sentiamo le risposte che sanno trovare i "piccoli" e le persone ritenute "senza fede e senza legge"; come quelle che sono sgorgate dal cuore della [donna] Sirofenicia (Mc 7,28), del centurione (Mt 8,8) o di Zaccheo (Lc 19, 1 ss), che "i sapienti e gli intelligenti" non potevano scoprire e che hanno fatto gridare Gesú di gioia e di ammirazione.
"Partecipare realmente alla condizione sociale dei poveri" significa entrare in una cultura. Non solo quando, per esempio, si viene dall’Europa, scoprire una cultura africana, asiatica, o latino-americana, ma scoprire la "cultura del povero", un modo di sentire la vita e guardare le realtà, un’esperienza che nasce dalla sofferenza e dalla povertà, abitudini di condivisione, modalità di esprimersi, un modo di far festa, ecc. È possibile, quando non si è nati in questa cultura, entrarvi e condividerla realmente? Secondo l’esperienza dei fratelli (lo scopriamo via via nelle pagine di questo libro) è da una parte impossibile: si rimane sempre degli stranieri; c’è anche di peggio: se qualcuno è cresciuto in questa cultura, rischia perfino di perderla entrando in una comunità internazionale [26/27] con tutte le sicurezze che offre! Tutto questo continua a far soffrire.
Ma i fratelli testimoniano anche che una vera condivisione si vive: e si esprime in termini di autentica amicizia. Bisogna riconoscere allora che questo non proviene più da noi: fatti pur tutti gli sforzi possibili, rimarrà sempre una sorta di baratro insuperabile. Ce la facciamo ad andare oltre solo perché le popolazioni ci tendono la mano per farci passare dalla loro parte. E lo fanno! È forse l’esperienza più forte della nostra condivisione di vita. Non siamo noi ad accogliere le persone, sono loro che ci ricevono; perdonano le nostre differenze e le nostre "ricchezze" e ci aprono le braccia: ci presentano ai loro amici, ci proteggono!
Questo presuppone che, in questa condivisione di vita, noi arriviamo ben decisi a metterci alla scuola di coloro con i quali vogliamo vivere. È ciò che, in un contesto di violenza, esprimono i nostri fratelli del Medio Oriente in una testimonianza riportata più avanti: "Nel popolo minuto ci sono bellissimi esempi dello stare insieme al di là delle divisioni politiche e confessionali. La gente semplice intorno a noi vive naturalmente relazioni spontanee al suo interno: si dividono le cose insieme, ci si scambiano servizi. Dobbiamo lasciarci istruire da loro e trovare così, nella semplicità della vita quotidiana, i gesti dell’accoglienza e dell’aiuto reciproco che avvicinano e disinnescano l’antipatia."
Questo presuppone anche che coltiviamo lo stile di povertà evangelica di cui parla il testo citato più sopra, in cui la Chiesa riconosce la nostra vocazione. Si potrebbe esprimere [questa esigenza] partendo da ciò che il Vangelo stesso chiarisce. Un giorno, ancora una volta, i discepoli chiedono a Gesú: "Chi è il più grande nel Regno di Dio? E Gesú risponde (traduzione libera!): "Se volete parlarmi del regno di Dio, vi dirò io che cos’è il Regno: il Regno è accogliere me; e chi accoglie me accoglie il Padre. Questo è il Regno. Così il più grande nel Regno sarà colui che darà le migliori possibilità alla gente di accogliere me." Allora chiama un bambino e lo mette in mezzo a loro dicendo: "Dovete diventare piccoli come questo bambino, così le persone semplici non avranno paura di offrirvi un bicchiere d’acqua o qualche altro servizio di cui potreste aver bisogno: se siete [27-28] piccoli e poveri, i poveri potranno accogliervi e in questo modo potranno ricevere me, me e mio Padre; in verità non avranno perduto la loro ricompensa!" (cf. Mt 18,1-5 e 10,42) Dare la possibilità all’altro di esprimere il meglio di sé perché sia anche lui operaio del Regno; cammino di povertà di cui non si vede mai la fine…
Affinché questa condivisione si potesse realizzare, bisognava ovviamente adottare lo stile di vita della gente. Quanto a sé, Charles de Foucauld l’aveva capito, mentre aspettava di poter insediare le comunità cui pensava: "Prendi come obiettivo la vita di Nazaret, in tutto e per tutto, nella sua semplicità ed estensione… Nessun abito religioso, come Gesú a Nazaret, niente clausura, come Gesú a Nazaret; non un’abitazione lontana dai luoghi abitati, ma vicina a un villaggio, come Gesú a Nazaret; almeno otto ore di lavoro al giorno, come Gesú a Nazaret." Questo significava anche costituire comunità molto piccole, che non avessero bisogno di grandi edifici ma potessero stare negli appartamenti o nelle case dei quartieri popolari. Le nostre fraternità sono infatti molto piccole (per lo più di due o tre fratelli), collegate fra loro in strutture regionali in cui possono trovare sostegno. Inoltre, dato che la missione è quella di vivere il Vangelo approfondendo i legami di amicizia con le persone, i fratelli, per radicarsi in un ambiente, sono spesso indotti a vivere per lunghi anni nella stessa fraternità, con gli stessi compagni.
Anche questa era una sfida. Ed è da raccogliere ogni giorno! Mantenere vivo nel corso degli anni il desiderio di camminare insieme con persone di cui si conoscono sempre meglio i limiti non è più facile per noi di quanto lo sia per una famiglia! Essere fratello con la gente di fuori è abbastanza gratificante anche se ci sono difficoltà; essere fratello con quelli di casa lo è ancora, ma non senza lotta! È uno dei luoghi in cui la verità del nostro impegno è messa con le spalle al muro: se crediamo davvero che il Regno di Dio cresce là dove ci si comporta da fratelli e sorelle, mettiamoci all’opera cominciando dai più vicini! La posta in gioco è alta: "La loro unità fraterna, dicono le Costituzioni, da sviluppare e approfondire incessantemente, è dono dello Spirito Santo e segno della presenza del regno di Dio. In un mondo violento e diviso, contribuisce a suo modo a edificare una società [28/29] più umana e annuncia il giorno in cui, pienamente trasfigurati dalla Vita divina, saremo tutti riuniti nell’unità della carità." Si dovrebbe aggiungere subito che, molto spesso, è l’amicizia delle persone intorno a noi, il loro coraggio nel riconciliarsi, la loro capacità di ricominciare di nuovo dopo le rotture, e il loro impegno perché realizzassimo la nostra vita di fraternità, ad averci salvato e rimesso in carreggiata quando le nostre fraternità attraversavano periodi difficili. Questo dato è un’illustrazione concreta di ciò che scrivevano i fratelli del Capitolo 1990: "Ciò che caratterizza la nostra vita comunitaria è che essa non si può vivere senza un legame col Padre, certo, ma nemmeno indipendentemente dal nostro mondo dei poveri: le relazioni coi vicini, i colleghi di lavoro… sono dal primo momento implicate nella nostra vita di ‘fraternità’. La vita tra noi fratelli è vissuta partendo dalla solidarietà con i piccoli, i poveri dei quali condividiamo la vita."
Le pagine che seguono si estendono per un periodo di quarant’anni (lo stile ne risente qualche volta). Raccontano fatti di vita vissuti in una quarantina di paesi. Dalla fine degli anni ’60 eravamo presenti in tutte le parti del mondo: il gran numero dei fratelli, giovani e pieni di entusiasmo, che hanno raggiunto la Fraternità in questo periodo, hanno permesso questa rapida espansione. Nel decennio seguente il ritmo delle fondazioni si è rallentato: era il caso di vivere e approfondire le grandi intuizioni della nostra vocazione in una duratura condivisione di vita. I fratelli allora hanno compreso in maniera più adeguata che la solidarietà con la gente comportava l’impegno di partecipare agli sforzi organizzativi e di ricerca dei poveri affinché la vita trionfasse sulle forze della morte. Gli anni più recenti vedono un altro sviluppo: nelle regioni, i fratelli originari dei diversi paesi assumono ora la responsabilità di far vivere la Fraternità con le caratteristiche della loro terra.
Nel periodo dell’espansione, la Fraternità aveva voluto innanzi tutto farsi presente al mondo operaio, nei confronti del quale la Chiesa aveva lasciato che si scavasse un fossato. Molto presto si è manifestato anche il desiderio di vivere il Vangelo fra popolazioni appartenenti alle grandi religioni del mondo, per [29/30] camminare da fratelli con persone che cercano Dio su altre strade.
Il lettore noterà inoltre che le fondazioni sono state fatte non solo con il desiderio di andare fino ai confini del mondo, ma anche con quello di raggiungere i più abbandonati, ai margini della società o della Chiesa: pescatori del mare, camionisti, operai circensi, detenuti in carcere, lebbrosi o senza fissa dimora ecc. Non sempre questo è stato il frutto di un piano preordinato: l’incontrarsi dei talenti, del temperamento dell’uno o dell’altro fratello, delle circostanze ha permesso alla Fraternità una condivisione di vita di estrema bellezza.
Susciterà forse qualche sorpresa il vedere fino a che punto i fratelli si sono mescolati ai diversi avvenimenti tragici della seconda metà del XX secolo: un fratello è stato ucciso nel 1956 durante la guerra d’indipendenza dell’Algeria e quattro negli avvenimenti del Congo nel 1964; c’erano alcuni fratelli, imprigionati con i loro vicini, allo stadio di Santiago, in Cile, nel 1973; ce n’erano sotto le bombe della guerra del Libano, ce ne sono nel cuore del conflitto mediorientale; una fraternità algerina ha dovuto chiudere dopo essere stata attaccata nei difficili anni ’90; lo stesso in Ruanda nel 1994, o un Paraguay durante la dittatura. E ancora, tante altre situazioni. I fratelli raccontano questi avvenimenti con semplicità e passione: li hanno vissuti non da eroi né come grandi reporters, ma dal di dentro, con i loro vicini e amici; qualche volta, dato che erano impegnati con la gente in favore della giustizia, hanno pagato con loro il prezzo dei poveri; qualche altra sono stati semplicemente risucchiati nella violenza che le popolazioni subiscono senza poter fare niente.
È il caso di ridire in poche parole a quale sorgente nascosta si nutre questo desiderio di condivisione che porta fratelli in ambienti così diversi? "L’amore di Cristo ci spinge" diceva S. Paolo. "Spinti dalla carità di Cristo che dà la propria vita sulla croce per riunire nell’unità del suo Corpo i figli di Dio che sono dispersi, fanno eco le nostre Costituzioni, essi vogliono amare tutti gli uomini oltre le divisioni di classi, di nazioni e di razze e portano nel loro cuore la ferita della separazione dei cristiani. Nell’intimità del cuore di Cristo, essi imparano da Lui a guardare ogni uomo con dolcezza e umiltà e ad amarlo come un fratello redento dallo stesso sangue, come un amico per il quale bisogna essere pronti a dare la vita. Vivono un amore di predilezione per coloro che portano in modo particolare le conseguenze del peccato del mondo." È una condivisione in ombra ma, come dice un fratello in una delle testimonianze: "Quando penso a quest’ombra e a quelli che ci vivono, la parola del Cristo rischiara quest’ombra: "Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi e io vi consolerò". "
Forse però la migliore introduzione alle testimonianze da leggere si trova nel profeta Michea; i fratelli riconosceranno perfettamente ciò che cercano di vivere giorno per giorno con coloro di cui condividono la vita: "Ti è stato fatto conoscere, o uomo, ciò che è bene, ciò che il Signore vuole da te: nient’altro che adempiere la giustizia, amare la bontà e camminare umilmente col tuo Dio" (Mi, 6,8).
E se rimanesse in noi un ultimo scrupolo, in noi fratelli che consegniamo al pubblico queste pagine piene dell’ordinarietà della vita, potremmo forse rileggere questa frase di Gandhi che René Voillaume citava già in "Come loro":
"Quando si intinge la mano nella bacinella,
quando si attizza il fuoco col soffietto di bambù
quando interminabili colonne di cifre
vengono allineate nel proprio ufficio di contabile,
quando si è bruciati dal sole,
o affondati nel fango della risaia,
quando si è in piedi davanti alla fornace del fonditore,
se proprio allora non si attua la stessa vita religiosa
che se si fosse in preghiera nel monastero,
il mondo non sarà mai salvato."
Marc Hayet
Priore dei Piccoli Fratelli di Gesù